di Federico Zappini
E’ interessante riflettere sul perché negli ultimi tempi la figura del camminatore – in politica, ma non solo – sia tornata di moda. Emmanuel Macron, sottraendosi alle primarie socialiste in Francia, ha scelto “En Marche” come nome del suo nuovo progetto. Un’invocazione di (e al) movimento, volutamente in contrapposizione all’immobilismo dei partiti tradizionali, visti come strumenti inutilizzabili e fuori dal tempo. Uno schema che sembra – per il momento e almeno nei sondaggi – funzionare. Sfruttandonela scia come un provetto ciclista Matteo Renzi ha lanciato la sua campagna congressuale nel tentativo di rimuovere il ricordo del suo triennio a Palazzo Chigi, non dinamico come nelle attese. Agendo di traduzione, materiale e spudorata, ecco nascere “In cammino”. Le piazze e le strade d’Europa si preannunciano quindi punteggiate di esploratori politici che sperimentano l’idea – non nuova, certo – che se Maometto non va alla montagna, sarà la montagna a muovere il primo passo. Di fronte alla disarticolazione sociale e politica, per porre un argine allo sfarinamento dei corpi intermedi e rispondere alla crisi dei processi democratici torna centrale l’esigenza di stabilire un contatto diretto con i cittadini (con quel popolo a cui tutti si riferiscono e che nessuno sembra davvero comprendere) e di riaffermare una presenza capillare sul territorio. Peccato che in pochi sembrino interessati a ricordare e ridare corpo all’esperienza politica sperimentata da Alexander Langer, “Viaggiatore leggere” continuamente a scavalcodei confini europei e delle differenze culturali, capace di sguardo lungo e di traiettorie radicali.
Negli ultimi anni – anche sotto la potente spinta, nel bene e nel male, della tecnologia – il viaggio è tornato a essere elemento utile per interrogare il presente, mettere in evidenza storie esemplari, incrociare sguardi e sviluppare processi di conoscenza e apprendimento. Con risultati più o meno gradevoli ed efficaci. Attraverso percorsi più o meno onesti dal punto di vista intellettuale. Non si contano i libri e i siti che raccolgono best practises nei campi della sostenibilità e dell’innovazione (il più famoso nel nostro paese è probabilmente “L’Italia che cambia”). C’è chi – come Paolo Rumiz, Enrico Brizzi e Wu Ming – ha recuperato il genere letterario della narrazione di viaggio, meglio se a piedi e con andamento lento, restituendogli dignità e successo. Persino lo scalcagnato, ormai ex, direttore del Sole 24 Ore Roberto Napoletano ha descritto in due libri gli itinerari di ricerca di coloro che, dentro la crisi economica, mettono in campo azione di resistenza imprenditoriale. Avrò certamente dimenticato qualcuno in questa rapida carrellata. Siamo di fronte – è evidente – a un “mercato” particolarmente segmentato e competitivo. Cosa differenzia quindi un viaggio come quello che ci apprestiamo ad iniziare da tutti quelli che l’hanno preceduto e da quelli che certamente lo seguiranno?
Si può partire carichi di certezze – sentendosi profeti piuttosto che viandanti, apolidi della politica – oppure leggeri, e in un certo senso fragili, sicuri solamente del fatto che dentro le trasformazioni epocali che stiamo osservando, a livello globale come locale, vadano cercate e condivise idee e ipotesi politiche capaci di riconoscere, articolare e promuovere cambi di paradigmi e non la difesa e la conservazione dell’esistente. “Non è il tempo della moderazione” scriveva Simone Casalini nei giorni scorsi dalle colonne del Corriere del Trentino, riflettendo attorno alla scivolosa categoria dei populismi e del fallimentare approccio della politica al montare di fenomeni d’insofferenza nei suoi confronti.
Il viaggio di sifr assume le caratteristiche di un’inchiesta collettiva e multiforme sulla modernità, contraddittoria e a tratti disturbante, così come – se vogliamo prendere un altro esempio letterario – l’ha descritta con grande profondità e acutezza Daniele Rielli nel suo “Storie dal mondo nuovo”, con la sola parziale eccezione dell’ultimo capitolo – non originale e curioso come il resto del libro – sul vicino Alto Adige. Allo stesso tempo, parlo in prima persona in questo momento, sifr è anche l’urgenza di lavorare sull’identificazione di uno scenario personale e collettivo che, per uno strano caso del destino, coincide con la lettura dell’ultimo romanzo di Paolo Cognetti “Le otto montagne”, storia che sento molto mia sia perché rappresentativa di una generazione confusa e alla costante ricerca di un’ancoraggio al futuro che per la capacità dell’autore di mettere in relazione le diversità umane (i due protagonisti, le loro esistenze) e ambientali (la città e la montagna) dentro un percorso accidentato e per nulla scontato di continue verifiche del passo successivo da compiere. E ancora – ultimo, ma non in ordine di importanza – sifr è il tentativo di spiegare che dentro la lunghissima transizione tra il “non più” e il “non ancora” – di cui ancora non vediamo la fine, anche e soprattutto per colpa nostra – quella da cercare non è la comunità “che fu” ma quella “che viene”. Una comunità che, nell’epoca dell’accelerazione come mantra, ragiona sulla necessità di darsi il tempo e di trovare il modo di stare insieme, restituendo valore all’incontro e alle relazioni. Una comunità che la politica, chi altrimenti, è chiamata ad accompagnare dentro le importanti sfide di questi “tempi interessanti”.
Ecco allora che questo cammino è guidato dalla curiosità e dalla voglia di lasciarsi stupire piuttosto che dal battere percorsi sicuri e avvicinarsi a mete conosciute. Non si accontenta di confermare un’idea di partenza ma si nutre di confronti sinceri e persino conflittuali. Non da (quasi) nulla per scontato, semplicemente perché non può permettersi di farlo, e pretende di mettere sotto stress ogni tema che incontrerà lungo la strada.