Al Caffè Darling, lungo la passeggiata d’inverno,
c’è un timido sole che s’affaccia fra le nuvole cariche di pioggia. Nei
tavolini si confondono gli idiomi più vari, tedesco, italiano, inglese,
spagnolo… ed in effetti questo è uno scorcio d’Europa.
E malgrado qualcuno pensi che a queste latitudini
ci si possa chiamare fuori dalle grandi contraddizioni del nostro tempo, per le
strade i colori dei volti sono i più disparati. Sorrido fra me nel pensare come
si possa trovare un ragazzo maghrebino fra queste signore e signori
elegantemente vestiti di lana cotta in una città che un tempo (ma in qualche
misura ancora oggi) rappresentava la residenza invernale dei ricchi tirolesi.
È qui che incontro lo scrittore e poeta Sepp Mall.
Lo volevo coinvolgere nel nostro itinerario dolomitico, ma i suoi impegni nei
giorni del nostro viaggio lo vedevano a Innsbruck. E allora abbiamo pensato di
incontrarci qualche giorno prima, per raccogliere dalle sue parole una
testimonianza sui temi cruciali che sono al centro del suo romanzo “Ai margini
della ferita” (Keller editore, 2014).
Perché anche in questo itinerario, in buona parte
dedicato all’autogoverno del territorio, ci sono tracce che la storia ha
lasciato dietro di sé difficilmente eludibili e che segnano la vita delle
persone, le loro relazioni, il loro sentire. Ferite ancora profonde che per
essere rimarginate richiedono uno specifico lavoro di elaborazione in assenza
del quale il tempo non basta.
Ecco perché il romanzo di Sepp Mall è importante,
dove anche un’opera letteraria può contribuire a guardare con occhi diversi il
dolore altrui o ciò che ne rimane. E rappresentare una forma originale e
delicata di elaborazione del conflitto. Che questo avvenga a partire dal
bisogno di connettere i ricordi della propria infanzia con la storia recente di
questa terra rende ancora più profondo e vero questo romanzo.
Perché è questa la scintilla
che ha dato il là all’opera dello scrittore meranese…
S.M. I ricordi
della mia infanzia a Curon Venosta degli anni ’50 e la lettura di un libro Die
Feuernacht (La notte dei fuochi) hanno aperto in me tante connessioni che prima
erano solo immagini riposte in qualche angolo dei miei ricordi.
“I celeri” come
noi ragazzi sudtirolesi chiamavamo i poliziotti italiani, una televisione che
trasmetteva le partite del campionato italiano di calcio, gli eroi del pallone
che riempivano il nostro immaginario, un attentato di cui in famiglia non si
parlava… e poi i racconti dei ragazzi, una scarpa ritrovata con ancora il
piede dell’attentatore saltato in aria vicino ad uno dei monumenti costruiti
dai fascisti, qualche brandello di una giovane vita perduta ritrovato nel campo
di famiglia nei pressi di quel monumento…
Così ho compreso
di essere stato mio malgrado parte di quella storia. Il fatto che non se ne
parlasse in famiglia non era affatto un’attenzione verso noi ragazzi, piuttosto
una rimozione o forse più semplicemente una distanza verso una dimensione
“politica” che non ci apparteneva.
Ecco allora che lo
sguardo di Paul (una delle vite parallele
di cui parla il romanzo, ndr) raccoglie immagini spontanee, non
condizionate dalle narrazioni ufficiali… Mazzola e Rivera, le canzonette, i
personaggi della televisione, le ragazze, i soldati… e tutto questo a
prescindere dalla lingua parlata.
Cui corrispondeva
il silenzio dei padri e dei padri dei padri, segnati dalle vicende che la
storia aveva loro riservato, come quella delle opzioni, lacerati fra la voglia
di andarsene da uno stato occupante e l’istinto di rimanere nella terra delle
proprie radici.
Connessioni che
solo dopo anni hanno cominciato a dare un senso agli avvenimenti. Questo
romanzo restituisce significato alle nostre vite ai margini della grande
storia.
La scelta di raccontare le
storie minori è una chiave interessante per parlare di quegli anni in forma
diversa…
(S.M.) Potremmo
dire che i personaggi de “Ai margini della ferita”, nella loro fragilità,
sono degli antieroi. La mia intenzione era proprio quella di mettere in rilievo
queste figure, umanizzandole.
«… Voglio sapere che cosa c’entra con la lotta
clandestina un ragazzino, il mio ragazzino balbuziente, il mio fratellino
innocente. Non ne sapeva nulla di queste cose, non ne aveva la più pallida
idea…»
E’ qualcosa che ha
a che fare con la “banalità del male” di cui parla Hannah Arendt. Ci si trova
in un contesto che è più grande di te, che ti appare assoluto, che ti macina…
«… Ma che cosa ne sapete voi. Dell’amore per il
popolo, dei sacrifici e soprattutto di come un povero diavolo, un balbuziente
come Alex, riesca a diventare un uomo…»
Ecco, credo che
dobbiamo aprirci alla storia nelle sue diverse angolature, per comprendere il
punto di vista e il dolore di ciascuno. Anche delle persone pressoché
sconosciute, per evitare di chiuderci ciascuno nel proprio mondo.
Ai margini della ferita…
(S.M.) Stare ai
margini della storia, della cronaca e dei mass media, significa stare in quella
posizione affinché i bambini, le sorelle e i fratelli, le madri e i padri,
possano trovare ascolto quando non solo non lo hanno ma nemmeno lo rivendicano.
Come gli alberi
intagliati da Alex le cui ferite dopo molti anni hanno prodotto protuberanze
nodose ma non si sono rimarginate. Eppure quelle parole incise erano un suo
modo diverso di esprimere quelle parole che dalla bocca facevano fatica ad
uscire.
Se le ferite non
si curano… In fondo non molto diverse dalla paura che si leggeva negli occhi
dei giovani soldati di pattuglia in un ambiente loro inconsapevolmente ostile.
L’uscita del romanzo che
impatto ha avuto sulle comunità?
(S.M.) Stiamo
parlando di microcosmi. Certo i giornali e i media in generale di questo
romanzo ne hanno parlato, ma tra questo e lo sguardo delle comunità ce ne
vuole. E’ certamente importante che molte scuole tedesche mi abbiano chiamato a
parlarne, ma è anche vero che ciò non è avvenuto affatto nelle scuole italiane
del Sudtirolo. Anche in Austria l’edizione originale in lingua tedesca del
romanzo ha avuto un impatto positivo anche se alla presentazione del romanzo ad
Innsbruck una persona anziana che negli anni 60 faceva parte die “bombaroli“
ovvero dei cosidetti “lottatori per la libertà“
mi disse «Non è questa la verità…». Forse non la sua verità, ma
un’altra verità.
Certo è che in quell’affermazione come nella
fatica degli italiani a parlarne le ferite sembrano ancora aperte, nonostante i
piccoli passi per incontrarsi. Anche perché quella ferita che non si rimargina
fa comodo a chi vuole tenerla aperta per proporne una rappresentazione in
opposizione agli altri. Non è un caso che la politica (quella dei partiti) non
abbia visto in questo romanzo non dico uno strumento di riconciliazione ma
nemmeno un buon pretesto per parlarne.
(S.M.) Qualche
volta ho sognato che uno dei politici sudtirolesi portasse questo libro a Roma.
Ma fino ad oggi non è accaduto.
Merano, 18 aprile
2017