Perturbare la pace
Lo abbiamo potuto osservare da vicino in ognuna delle tappe di questo itinerario. Nei pressi di Brescia, prima ancora di inoltrarci in uno dei temi chiave della metamorfosi sociale culturale (ma anche economica) rappresentata dai fenomeni migratori, nel visitare il Musil – il Museo dell’industria e del lavoro di Rodengo Saiano – in un contesto dove la necessità di fare i conti con il passato diviene sempre più cruciale se vogliamo avere un racconto da svolgere su un presente ridotto ad “emergenza” e su un futuro che richiede di mettere mano a contraddizioni di ordine strutturale per poterlo delineare in forma sostenibile.
“Aiutiamoli a casa loro”: un titolo provocatorio di fronte all’ipocrisia di chi prima depreda, poi semina guerra (continuando a depredare) e che infine vorrebbe imporre – come già avvenne nel 1999 in Kosovo con la Missione Arcobaleno – codici comportamentali per condannare all’oblio un’umanità alla ricerca di un qualche futuro. Ma che vuole essere una provocazione anche per una società civile che ha smesso da tempo di interrogarsi, che preferisce ritagliarsi uno spazio di testimonianza rituale piuttosto che accettare di venir scossa nella sua visione manichea, come se bene e male non riguardassero da vicino anche i nostri mondi e i nostri stessi stili di vita che ci ostiniamo a considerare “non negoziabili”.
Con Agostino Zanotti, presidente di ADL Zavidovici Onlus che del convegno è promotore, mi accomuna fin dai primi anni ’90 l’impegno e la sperimentazione di nuove vie di cooperazione internazionale nei Balcani. In questa cosa dell’“aiutiamoli a casa loro” non possiamo che scorgere la doppiezza di chi per un verso è parte del problema e per l’altro sfoggia una facile retorica degli aiuti senza nemmeno sapere che anche questi ultimi lo sono. Nel salone del Centro Saveriano come nella sala della Società operaia di Rezzato, affollata in ogni ordine di posto per la presentazione del volume “Dal libro dell’esodo” (Piemme), si poteva misurare l’improrogabile necessità di “perturbare la pace”, di dire le cose come stanno anche nella loro ruvidezza, per cercare di costruire nello smarrimento del “prima noi” un nuovo racconto.