Tornare alla Terra
Così non è per la pianura tradizionalmente rurale (che poi significa anche industria agroalimentare e filiere connesse) che incontriamo spostandoci verso est in direzione Calvatone, dove andiamo a visitare la Comunità Iris, forse la prima e più grande esperienza italiana di agricoltura biologica partecipata. Loro il cambio di paradigma l’hanno cercato ed ha funzionato. In genere quando pensiamo al biologico viene da fare un’associazione con la testimonianza di nicchia, ma qui questo schema mentale non funziona. Perché stiamo parlando di un’attività che l’anno prossimo festeggia i suoi primi quarant’anni, perché vi lavorano stabilmente più di sessanta persone senza contare l’indotto, perché l’investimento che ha portato alla realizzazione del nuovo pastificio è stato di circa 7 milioni di euro di cui si sono fatti carico cinquecento soci senza un euro di intervento pubblico, perché infine la rete di vendita dei prodotti è locale, nazionale (in particolare attraverso i Gruppi di acquisto solidale – GAS) ed europea.
Insomma, qui il bello non è poi tanto piccolo e la qualità dei prodotti certificata e, possiamo dire, testimoniata. Fabio, Franco e Mirco che incontriamo sono orgogliosi di quello che si è costruito ma anche un po’ preoccupati perché col crescere delle produzioni aumenta anche il timore di fare le cose per bene, sana prudenza. La terra da poco arata intorno a noi è davvero spettacolare come lo sono i maialini allo stato brado che zampettano in libertà. Riflettiamo insieme su quanto sarebbe importante una legislazione che favorisse nella ristorazione pubblica collettiva (come avevamo previsto nella LP 13/2009, mai realmente attuata) l’uso del biologico e dei prodotti a basso impatto ambientale quando invece negli appalti ancora la spunta il massimo ribasso.
Eredità novecentesche…
A Caorso, dove l’eredità del Novecento assume i caratteri macabri di un impianto nucleare che – per quanto in stato di abbandono – non si potrà mai chiudere (e dal quale ci hanno gentilmente allontanati impedendoci anche la più innocua ripresa, quando basta andare su un qualsiasi motore di ricerca per poterlo osservare), come del resto è avvenuto per Chernobyl o Fukushima, ancora in funzione nonostante le immani tragedie sulle cui conseguenze mai sapremo tutta la verità. Torno qui trent’anni dopo quella memorabile catena umana che circondò la centrale e della quale ero fra gli organizzatori. Allora vincemmo, ma “Arturo” (così veniva chiamato – e ancora viene chiamato, ci dice la guardia che ci prende i documenti in prossimità dell’impianto – il reattore di Caorso) è ancora lì. Oppure a Cremona, dove la pesante eredità è quella della Tamoil, l’imponente raffineria vasta quanto la città stessa, che malgrado la chiusura continua nell’avvelenamento da idrocarburi e benzene delle falde acquifere e del fiume Po che le scorre accanto. Alessia Manfredini – che incontriamo – ne ha fatto un tratto distintivo del suo impegno assessorile in Comune, ma il danno appare irreversibile e la multinazionale Tamoil se la caverà con qualche briciola (in primo grado i dirigenti Tamoil sono stati condannati a pagare al Comune di Cremona la cifra praticamente simbolica di un milione di euro) di risarcimento.
Con Emilio Molinari, amico e protagonista di mille battaglie ambientali fra le quali il referendum che nel novembre1987 pose fine all’avventura nucleare italiana con una schiacciante maggioranza del 71,86%, riflettiamo su ciò che rimane sia di quel sito nucleare (e del modello energetico che rappresentava), sia dell’antica identità rurale di questa terra almeno qui irrimediabilmente compromessa. Può sembrare paradossale, dice Emilio, ma a distanza di trent’anni si avverte forse ancora di più quel clima di militarizzazione che il nucleare portava con sé. Ed in effetti avvicinarsi alla zona no limits della centrale ricorda le immagini dei reportage su Priyat e Chernobyl. A ben vedere piuttosto simili al degrado che si avverte nelle tante aree industriali dismesse. Il problema è che da quel paradigma non è facile uscire.
Perturbare la pace
Lo abbiamo potuto osservare da vicino in ognuna delle tappe di questo itinerario. Nei pressi di Brescia, prima ancora di inoltrarci in uno dei temi chiave della metamorfosi sociale culturale (ma anche economica) rappresentata dai fenomeni migratori, nel visitare il Musil – il Museo dell’industria e del lavoro di Rodengo Saiano – in un contesto dove la necessità di fare i conti con il passato diviene sempre più cruciale se vogliamo avere un racconto da svolgere su un presente ridotto ad “emergenza” e su un futuro che richiede di mettere mano a contraddizioni di ordine strutturale per poterlo delineare in forma sostenibile.
“Aiutiamoli a casa loro”: un titolo provocatorio di fronte all’ipocrisia di chi prima depreda, poi semina guerra (continuando a depredare) e che infine vorrebbe imporre – come già avvenne nel 1999 in Kosovo con la Missione Arcobaleno – codici comportamentali per condannare all’oblio un’umanità alla ricerca di un qualche futuro. Ma che vuole essere una provocazione anche per una società civile che ha smesso da tempo di interrogarsi, che preferisce ritagliarsi uno spazio di testimonianza rituale piuttosto che accettare di venir scossa nella sua visione manichea, come se bene e male non riguardassero da vicino anche i nostri mondi e i nostri stessi stili di vita che ci ostiniamo a considerare “non negoziabili”.
Con Agostino Zanotti, presidente di ADL Zavidovici Onlus che del convegno è promotore, mi accomuna fin dai primi anni ’90 l’impegno e la sperimentazione di nuove vie di cooperazione internazionale nei Balcani. In questa cosa dell’“aiutiamoli a casa loro” non possiamo che scorgere la doppiezza di chi per un verso è parte del problema e per l’altro sfoggia una facile retorica degli aiuti senza nemmeno sapere che anche questi ultimi lo sono. Nel salone del Centro Saveriano come nella sala della Società operaia di Rezzato, affollata in ogni ordine di posto per la presentazione del volume “Dal libro dell’esodo” (Piemme), si poteva misurare l’improrogabile necessità di “perturbare la pace”, di dire le cose come stanno anche nella loro ruvidezza, per cercare di costruire nello smarrimento del “prima noi” un nuovo racconto.
Nel gorgo, per non abbaiare
Racconto di viaggio lungo la valle del Po, fra ingombranti eredità e la ricerca di nuovi paradigmi
di Michele Nardelli
In ognuno degli itinerari fin qui realizzati del “Viaggio nella solitudine della politica” sentivo di essere sul pezzo, ma mai come in quest’ultimo percorso nel cuore della “Padania” la sensazione di “essere presenti al proprio tempo” è stata così viva.
Essere lì, a Pieve di Soligo, nella terra di Andrea Zanzotto e di Giuseppe Toniolo, il poeta che ha saputo raccontare con grande profondità lo spaesamento della sua terra e l’economista cattolico che seppe dar corpo e profilo culturale al movimento cooperativo veneto, nel giorno cruciale del referendum per l’autonomia, ad interrogarci sul valore dell’autogoverno in una prospettiva europea, ha dato oltremodo significato al nostro viaggio assumendo nel tempo di twitter e dei talk show – come qualcuno ha osservato nel corso dell’incontro riferendosi all’aridità dell’attuale contesto politico – un profilo quasi commovente.
Pulsare col tempo, coglierne i segni, non è affatto scontato. Vivere un presente tanto complesso, oltremodo in una regione come la “Padania” che – da Caorso alla Marca trevigiana – porta addosso le conseguenze visibili del fallimento di un modello di sviluppo industriale ed energetico che ha avuto l’effetto di snaturare quella che rappresentava una della più importanti aree rurali d’Europa, fra pulsioni contraddittorie e laceranti, ci è servito a riflettere su come il cambio dei nostri paradigmi sia un passaggio tanto cruciale quanto ineludibile.
Padania, fra identità e spaesamento
Brescia, Piacenza, Cremona, Formigine (MO), Padova, Pieve di Soligo (TV).
Tematiche:
La pianura padana nel gorgo dei processi di trasformazione, fra i miti dello sviluppo, identità sempre più fragili, nuove cittadinanze, orgoglio e spaesamento. E voglia di autogoverno.
“Quando la cazzuola fischia l’economia canta” [anonimo veneto]