Segni del tempo
La tappa in preparazione

La difficile accoglienza del nuovo

Prologo bellunese del “Viaggio nella solitudine della politica”

Un incontro sul “Viaggio” e sulle motivazioni che qui sono riprese nell’invito di Diego Cason è previsto per domenica prossima 23 aprile alle ore 17.00 presso l’ISBREC (Istituto storico della resistenza e dell’età contemporanea) di Belluno in piazza del Mercato.
di Diego Cason

Il Trentino che ci sfugge fra le dita

(21 e 28 marzo, 19 aprile 2017) Il Trentino ufficiale che ha smesso di interrogarsi e quello delle ombre, dove il significato profondo dell’autonomia non trova casa. Il “Terzo Statuto” visto da dentro. Una “tre giorni” nei luoghi di frontiera della vita quotidiana. Incontri e testimonianze da Palù del Fersina, Castello Tesino, Manifattura di Rovereto, Villalagarina, Trento (nella sua duplice funzione cittadina e provinciale). Il 19 e il 20 aprile alla dimensione territoriale l’indagine si è estesa agli ambiti sociali con nuove interviste a Rovereto, Trento e Lavis.

Ai margini della ferita. Una conversazione con lo scrittore Sepp Mall

Al Caffè Darling, lungo la passeggiata d’inverno, c’è un timido sole che s’affaccia fra le nuvole cariche di pioggia. Nei tavolini si confondono gli idiomi più vari, tedesco, italiano, inglese, spagnolo… ed in effetti questo è uno scorcio d’Europa.

E malgrado qualcuno pensi che a queste latitudini ci si possa chiamare fuori dalle grandi contraddizioni del nostro tempo, per le strade i colori dei volti sono i più disparati. Sorrido fra me nel pensare come si possa trovare un ragazzo maghrebino fra queste signore e signori elegantemente vestiti di lana cotta in una città che un tempo (ma in qualche misura ancora oggi) rappresentava la residenza invernale dei ricchi tirolesi.

È qui che incontro lo scrittore e poeta Sepp Mall. Lo volevo coinvolgere nel nostro itinerario dolomitico, ma i suoi impegni nei giorni del nostro viaggio lo vedevano a Innsbruck. E allora abbiamo pensato di incontrarci qualche giorno prima, per raccogliere dalle sue parole una testimonianza sui temi cruciali che sono al centro del suo romanzo “Ai margini della ferita” (Keller editore, 2014).

Perché anche in questo itinerario, in buona parte dedicato all’autogoverno del territorio, ci sono tracce che la storia ha lasciato dietro di sé difficilmente eludibili e che segnano la vita delle persone, le loro relazioni, il loro sentire. Ferite ancora profonde che per essere rimarginate richiedono uno specifico lavoro di elaborazione in assenza del quale il tempo non basta.

Ecco perché il romanzo di Sepp Mall è importante, dove anche un’opera letteraria può contribuire a guardare con occhi diversi il dolore altrui o ciò che ne rimane. E rappresentare una forma originale e delicata di elaborazione del conflitto. Che questo avvenga a partire dal bisogno di connettere i ricordi della propria infanzia con la storia recente di questa terra rende ancora più profondo e vero questo romanzo.

Perché è questa la scintilla che ha dato il là all’opera dello scrittore meranese…

S.M. I ricordi della mia infanzia a Curon Venosta degli anni ’50 e la lettura di un libro Die Feuernacht (La notte dei fuochi) hanno aperto in me tante connessioni che prima erano solo immagini riposte in qualche angolo dei miei ricordi.

“I celeri” come noi ragazzi sudtirolesi chiamavamo i poliziotti italiani, una televisione che trasmetteva le partite del campionato italiano di calcio, gli eroi del pallone che riempivano il nostro immaginario, un attentato di cui in famiglia non si parlava… e poi i racconti dei ragazzi, una scarpa ritrovata con ancora il piede dell’attentatore saltato in aria vicino ad uno dei monumenti costruiti dai fascisti, qualche brandello di una giovane vita perduta ritrovato nel campo di famiglia nei pressi di quel monumento…

Così ho compreso di essere stato mio malgrado parte di quella storia. Il fatto che non se ne parlasse in famiglia non era affatto un’attenzione verso noi ragazzi, piuttosto una rimozione o forse più semplicemente una distanza verso una dimensione “politica” che non ci apparteneva.

Ecco allora che lo sguardo di Paul (una delle vite parallele di cui parla il romanzo, ndr) raccoglie immagini spontanee, non condizionate dalle narrazioni ufficiali… Mazzola e Rivera, le canzonette, i personaggi della televisione, le ragazze, i soldati… e tutto questo a prescindere dalla lingua parlata.

Cui corrispondeva il silenzio dei padri e dei padri dei padri, segnati dalle vicende che la storia aveva loro riservato, come quella delle opzioni, lacerati fra la voglia di andarsene da uno stato occupante e l’istinto di rimanere nella terra delle proprie radici.

Connessioni che solo dopo anni hanno cominciato a dare un senso agli avvenimenti. Questo romanzo restituisce significato alle nostre vite ai margini della grande storia.

La scelta di raccontare le storie minori è una chiave interessante per parlare di quegli anni in forma diversa…

(S.M.) Potremmo dire che i personaggi de “Ai margini della ferita”, nella loro fragilità,  sono degli antieroi. La mia intenzione era proprio quella di mettere in rilievo queste figure, umanizzandole.

«… Voglio sapere che cosa c’entra con la lotta clandestina un ragazzino, il mio ragazzino balbuziente, il mio fratellino innocente. Non ne sapeva nulla di queste cose, non ne aveva la più pallida idea…»

E’ qualcosa che ha a che fare con la “banalità del male” di cui parla Hannah Arendt. Ci si trova in un contesto che è più grande di te, che ti appare assoluto, che ti macina…

«… Ma che cosa ne sapete voi. Dell’amore per il popolo, dei sacrifici e soprattutto di come un povero diavolo, un balbuziente come Alex, riesca a diventare un uomo…»

Ecco, credo che dobbiamo aprirci alla storia nelle sue diverse angolature, per comprendere il punto di vista e il dolore di ciascuno. Anche delle persone pressoché sconosciute, per evitare di chiuderci ciascuno nel proprio mondo.

Ai margini della ferita…

(S.M.) Stare ai margini della storia, della cronaca e dei mass media, significa stare in quella posizione affinché i bambini, le sorelle e i fratelli, le madri e i padri, possano trovare ascolto quando non solo non lo hanno ma nemmeno lo rivendicano.

Come gli alberi intagliati da Alex le cui ferite dopo molti anni hanno prodotto protuberanze nodose ma non si sono rimarginate. Eppure quelle parole incise erano un suo modo diverso di esprimere quelle parole che dalla bocca facevano fatica ad uscire.

Se le ferite non si curano… In fondo non molto diverse dalla paura che si leggeva negli occhi dei giovani soldati di pattuglia in un ambiente loro inconsapevolmente ostile.

L’uscita del romanzo che impatto ha avuto sulle comunità?

(S.M.) Stiamo parlando di microcosmi. Certo i giornali e i media in generale di questo romanzo ne hanno parlato, ma tra questo e lo sguardo delle comunità ce ne vuole. E’ certamente importante che molte scuole tedesche mi abbiano chiamato a parlarne, ma è anche vero che ciò non è avvenuto affatto nelle scuole italiane del Sudtirolo. Anche in Austria l’edizione originale in lingua tedesca del romanzo ha avuto un impatto positivo anche se alla presentazione del romanzo ad Innsbruck una persona anziana che negli anni 60 faceva parte die “bombaroli“ ovvero dei cosidetti “lottatori per la libertà“  mi disse «Non è questa la verità…». Forse non la sua verità, ma un’altra verità.

Certo è che in quell’affermazione come nella fatica degli italiani a parlarne le ferite sembrano ancora aperte, nonostante i piccoli passi per incontrarsi. Anche perché quella ferita che non si rimargina fa comodo a chi vuole tenerla aperta per proporne una rappresentazione in opposizione agli altri. Non è un caso che la politica (quella dei partiti) non abbia visto in questo romanzo non dico uno strumento di riconciliazione ma nemmeno un buon pretesto per parlarne.

(S.M.) Qualche volta ho sognato che uno dei politici sudtirolesi portasse questo libro a Roma. Ma fino ad oggi non è accaduto.

Merano, 18 aprile 2017

Invito al confronto

Egregi Signori e Signore, cari amici e amiche,

ho ricevuto da Michele Nardelli la seguente sollecitazione.

Quando l’ho letto ho aderito senza esitazione e ho deciso di aiutarlo ad organizzare la seconda tappa del suo viaggio in provincia di Belluno. Per iniziare immagino sia utile che conosciate Michele. Prima di tutto è uno dei fondatori dell’Osservatorio Balcani Caucaso transeuropa, OBC Transeuropa,

Troverete tutto quello che serve per farvi la vostra idea. Io lo conosco da alcuni anni e sento che ci unisce la capacità di osservare il mondo nel quale c’è data la grazia e l’avventura di vivere. Ma non ci accontentiamo di starci. Avvertiamo il dovere e il privilegio di agire, nei limiti delle nostre competenze, per renderlo un posto migliore. Senza pretese, sapendo che il meglio è quasi sempre un nemico del bene. Condividiamo questo desiderio con molti che conosciamo e con moltissimi che non conosceremo mai che sanno, come dice Papa Francesco nella sua Enciclica “Laudato si’: “Il bene comune esige il rispetto della persona umana in quanto tale, con diritti fondamentali e inalienabili ordinati al suo sviluppo integrale. Basta osservare la realtà per comprendere che oggi questa opzione è una esigenza etica fondamentale per l’effettiva realizzazione del bene comune.

 Le considerazioni dell’Enciclica non si rivolgono solo ai fedeli cattolici, chiamano ognuno ad una riflessione ineludibile:

Molte cose devono riorientare la propria rotta, ma prima di tutto è l’umanità che ha bisogno di cambiare. Manca la coscienza di un’origine comune, di una mutua appartenenza e di un futuro condiviso da tutti. Questa consapevolezza di base permetterebbe lo sviluppo di nuove convinzioni, nuovi atteggiamenti e stili di vita. Emerge così una grande esigenza culturale, spirituale e educativa che implicherà lunghi processi di rigenerazione.”

L’essere umano: “accetta gli oggetti ordinari e le forme consuete della vita così come gli sono imposte dai piani razionali e dalle macchine normalizzate e, nel complesso, lo fa con l’impressione che tutto questo sia ragionevole e giusto.  Tale paradigma fa credere a tutti che sono liberi perché conservano una pretesa libertà di consumare, quando in realtà coloro che possiedono la libertà sono quelli che fanno parte della minoranza che detiene il potere economico e finanziario. In questa confusione, l’umanità postmoderna non ha trovato una nuova comprensione di sé stessa che possa orientarla, e questa mancanza di identità si vive con angoscia. Abbiamo troppi mezzi per scarsi e rachitici fini.”[1]

Ci serve un cambio di paradigma, secondo la definizione di Fritjof Capra: “A paradigm is a constellation of concepts, values, perceptions and practices shared by a community, which forms a particular vision of reality.[2] Integrata da quella proposta da Christian de Quincey: ‘[A paradigm] is like a superstructure of ideas, a scaffolding upon which we hand our understanding, our ‘knowledge’ of reality.[3]

Per comprenderne il significato, non c’è di meglio di George Bernard Shaw: “The reasonable man adapts himself to the world. The unreasonable man persists in trying to adapt the world to himself. Therefore, all progress depends on the unreasonable man.

Sia pure molto lentamente gli economisti stanno abbandonando il feticcio del Pil ed immaginano nuovo modo per esercitare la contabilità sociale. Un sistema che permetta ad un paese, ad ogni comunità, di costruire di scegliere democraticamente una combinazione, necessariamente differente, degli obiettivi riguardanti l’auspicabile stato della ricchezza, la diseguaglianza, la protezione sociale, la sicurezza la salute, l’educazione, la qualità dell’ambiente. In una parola poter definire liberamente il proprio benessere.[4]

Occorre liberarsi di vecchi modi di pensare e affrontare i problemi in maniera nuova, giocare con le idee perché le persone austere, senza creatività, non sono quasi mai in grado di avere buone intuizioni, ovvero utilizzare buone idee altrui; essi non vanno oltre alle parole scarsità, necessità e regione. In questo modo si ha una visione del mondo legata alla sola presenza delle cose e ai vincoli che esse impongono all’umanità. In nome della scarsità dei beni, si giustifica, però, che pochi si approprino di molto e moltissimi non abbiano il minimo indispensabile. Ma è necessario guardare l’altro lato della questione, ovvero al modo in cui nascono i desideri, poiché da essi dipendono i bisogni. Non sono le risorse limitate che impongono la diseguaglianza, bensì l’illimitata crescita dei desideri che rende insufficienti le risorse del pianeta che ci ospita.

Già lo intuì Giacomo Leopardi nella prima delle sue operette morali, Storia del genere umano: “appartiene alla propria natura degli uomini, che non può loro bastare, come agli altri animali, vivere ed essere liberi da ogni dolore e molestie del corpo; anzi, che bramando sempre in qualunque stato l’impossibile, tanto più si travagliano con questo desiderio da sé medesimi, quantomeno sono afflitti dagli altri mali…”

Per dirlo con Morin: “L’inatteso ci sorprende. Il fatto è che ci siamo installati con troppo grande sicurezza nelle nostre teorie e nelle nostre idee, e che queste non hanno nessuna struttura di accoglienza per il nuovo. Non possiamo mai prevedere il modo in cui si presenterà, ma dobbiamo aspettarci la sua venuta, cioè attenderci l’inatteso. E, una volta giunto l’inatteso, si dovrà essere capaci di rivedere le nostre teorie e idee …”[5]

Ogni società per esistere deve immaginarsi il proprio futuro. Tutte le comunità umane hanno cercato nel loro passato gli elementi della cultura su cui fondare le basi sociali della personalità delle nuove generazioni. I miti e gli eroi sono sempre stati utili per proporre, con i modelli che implicano, modalità di comportamento e proiezioni sociali accettabili e condivisibili, capaci di unire i membri della comunità fra loro e verso uno scopo.[6]

La realtà contemporanea mostra i sintomi del mutamento in corso: dall’individualismo sempre più marcato, dal narcisismo all’edonismo sempre più cinico; la trasversalità del potere che si impone anche senza ideologie apparenti. Non esistono più verità assolute, ognuno crea un proprio mondo rivendicando il diritto di mescolare senza discernimento nuove tecnologie con superstizioni e riti tribali.

Una delle superstizioni cui mi riferisco è la stessa di Robinson Crusoe:

Una mattina, verso mezzogiorno, mentre mi avviavo verso la barca, con mia enorme sorpresa vidi nitidissima, impressa nella sabbia della spiaggia, l’orma di un piede umano scalzo. Rimasi immobile, fulminato come se avessi visto uno spettro. Tesi l’orecchio, mi guardai attorno, ma non sentii alcun rumore, non vidi nulla. Salii sopra un’altura per spingere lo sguardo più lontano. Percorsi la spiaggia in lungo e in largo, ma non vidi nessun’altra impronta oltre a quella. Tornai sui miei passi per vedere se ci fossero altre orme, oltre a quella, e per assicurarmi che non si fosse trattato di un’allucinazione; ma non c’erano dubbi: si trattava proprio dell’impronta di un piede, con le dita, il calcagno e ogni altra sua parte. Come potesse trovarsi in quel modo non lo sapevo, né potevo assolutamente immaginarlo. Ma dopo aver avanzato fra me e me le più svariate e confuse ipotesi, come può accadere a un uomo letteralmente stravolto e sbigottito, feci ritorno alla mia fortezza … in preda a indescrivibile terrore, guardandomi alle spalle ogni due o tre passi, credendo di vedere chissà che in ogni albero e in ogni cespuglio, e scambiando per un uomo tutti i tronchi che mi apparivano di lontano. Quando raggiunsi il mio castello, mi rifugiai all’interno come se fossi stato inseguito da qualcuno. Quella notte non chiusi occhio. Più ero lontano dalla fonte del mio terrore, più sentivo aumentare la mia angoscia. Ciò può sembrare contraddittorio ma la mia angoscia era provocata dalle idee spaventose che io stesso alimentavo in me, elaborando sul fatto le più sinistre fantasie e sebbene in quel momento mi trovassi molto lontano dal luogo in cui avevo fatto quella scoperta spaventosa. A volte ero indotto a pensare che quella fosse l’orma del demonio, e la ragione sembrava confortare una siffatta ipotesi: com’era possibile, infatti, che un essere umano fosse giunto in un luogo simile? Dov’era la nave che lo aveva portato sin lì? La paura soffocava in me ogni religioso sentimento di speranza.[7]

La paura è il prodotto dell’incertezza e la paura produce nuova incertezza. Il disagio che esisteva nella modernità nasceva un tipo di sicurezza sociale che assegnava alla libertà un ruolo troppo limitato nella ricerca della felicità individuale. Il disagio della postmodernità nasce da una libertà nella ricerca del piacere che lascia uno spazio troppo limitato alla sicurezza individuale. Nella vita intesa come gioco dai consumatori postmoderni, le regole cambiano continuamente, la strategia vincente è quella di chiudere ogni partita velocemente, dividendo ogni sfida volta a dare senso al mondo in una serie di partite brevi e veloci. Si usa definire questo modello della vita quotidiana come un “vivere alla giornata” che diventa una successione di piccole emergenze che elimina ogni impegno a lungo termine.  Il presente esiste separato dal passato e dal futuro in questo modo il tempo diventa una sequenza arbitraria di momenti presenti nei quali si possono adottare diversi comportamenti ed identità sfuggendo alla responsabilità degli atti compiuti prima di oggi, di adesso. In questo modo le gratificazioni future per l’impegno presente e continuo perdono di significato E non sono più in grado di motivare l’agire razionale verso un obiettivo successivo. Il soddisfacimento del desiderio-bisogno immediato diventa il principale fattore dell’agire. Ciò induce a una perdita di responsabilità nei confronti di quel che si è compiuto e delle conseguenze che questo può aver prodotto sugli altri.

L’incertezza che ne deriva è opprimente e produce una sorta di assedio della paura.

Per Zygmunt Bauman alcuni dei fattori che lo alimentano sono:

A) il nuovo disordine mondiale;

B) la “deregulation” universale;

C) il venir meno delle reti di protezione dei rapporti di vicinato e familiari;

D) la continua contrattazione delle relazioni sociali e la loro breve durata;

E) la frammentazione delle identità sociali individuali.[8]

Ogni elemento che produce ulteriore incertezza ed insicurezza è visto come un nemico, comprese le persone che ci appaiono inutili al fine di soddisfare un nostro desiderio. Esse diventano meritevoli d’odio se appaiono un richiamo a qualsiasi tipo di responsabilità etica e sociale e, quindi, un ingiustificato ostacolo al proprio agire. Non per caso un 48% degli europei ritiene l’immigrazione il principale elemento di insicurezza a partire dal 2014. Prima la preoccupazione prevalente era quella relativa alle difficoltà economiche e alla disoccupazione.

Il paradigma della crescita, dello sviluppo, ha prodotto un’umanità postmoderna che assume valore solo se consuma. E’ il paradosso del ciclista: finche si muove rimane in equilibrio, se viene meno l’accelerazione o la forza d’inerzia cade. Le società formate da individui motivati solo dalla soddisfazione dei desideri individuare non può rimanere coesa ed è preludio a conflitti sempre più estesi.

Ecco allora che il viaggio proposto da Michele Nardelli arriva al momento giusto. Si pone l’obiettivo di andare ad ascoltare gli altri, che vivono esperienze differenti, che cercano strade diverse, per costruire relazioni e legami significativi capaci di strappare l’uomo e le comunità postmoderne dalla loro prigione di consumatori desideranti.

Non vi è dubbio che le considerazioni fatte finora si riferiscono prevalentemente a paradigmi costruiti su misura delle realtà urbane. Per questo che le aree periferiche e marginali sono quelle che ospitano le più interessanti esperienze innovative capaci definire un nuovo paradigma per interpretare il mondo e rispettarne l’integrità. O più modestamente per trovare il modo di viverci, da ospiti meno invadenti e distruttivi.

Per questo la seconda tappa del suo viaggio avverrà a Belluno. Il territorio dolomitico è una in una situazione speciale. E questo non per ragioni etniche o per presunte superiorità dei bellunesi rispetto ad altre persone che abitano il pianeta in altri luoghi. Ognuno sa che una comunità di umani necessita di integrazione e soddisfazione dei bisogni individuali e collettivi, di connessioni emotive condivise[9], di potere, inteso come percezione della capacità di influire sulla realtà, e di senso di appartenenza. Non diversamente dagli individui anche le comunità hanno bisogno di autostima. Se ce l’hanno sono in grado di accettare e ospitare la novità, l’estraneo, lo sconosciuto, il diverso. Se non ce l’hanno si produce razzismo e isolamento, solitudine, disgregazione e indifferenza. Una comunità forte e consapevole di sé garantisce sicurezza individuale e collettiva ma, inevitabilmente, limita la libertà individuale “costringendo” entro regole condivise l’agire dei suoi membri. Per questo motivo le persone fuggono dalle piccole comunità e sono attirate dall’anonimato della convivenza urbana che lascia ampia libertà all’individuo poiché i cittadini sono slegati gli uni dagli altri (perché indipendenti economicamente) e per questo più facilmente indifferenti e soli. Le comunità di dimensioni ridotte, come quelle che popolano le Alpi, e le Dolomiti in particolare, che non hanno potuto e saputo equilibrare l’appartenenza comunitaria e la libertà individuale, si sono disintegrate e non esistono più. Quelle che hanno mantenuto vive le connessioni emotive e che hanno avuto sufficiente potere sono sopravvissute e prosperano. Le comunità bellunesi hanno avuto, in seguito al crimine del Vajont, un eccezionale apporto di investimenti pubblici (più di 200 miliardi di lire) dal 1965 al 1990 che ha permesso loro, tramite la piena occupazione in manifattura, di soddisfare i propri bisogni materiali. Questo ha permesso la sopravvivenza di gran parte delle connessioni emotive nelle reti sociali finché i vincoli di parentela sono stati estesi e la mobilità occupazionale ridotta. Le vicende vissute insieme nel corso del ‘900 hanno prodotto un sentimento di appartenenza assai robusto e resiliente al fascino dell’urbano e del cosmopolitismo. Il quarto elemento su cui si fondano comunità dinamiche e floride, invece, è stato costantemente eroso fino all’attuale annichilimento. Le comunità bellunesi avvertono con chiarezza che non hanno più rappresentanza politica e che il loro potere contrattuale con le altre istituzioni (stato e regione) è svanito. Si sentono in pericolo ed esposti al rischio di dissoluzione della loro sicurezza e del loro benessere arrivato tardi e in modo molto veloce. Questa possibilità è tutt’altro che remota.

Il bellunese ha dieci particolarità presenti anche in altre comunità alpine e rurali ma non tutte dieci insieme, contemporaneamente, in un unico territorio.

  1. È interamente montano con quote medie delle residenze di circa 800 mt. slm.
  2. Confina con uno stato estero (Austria).
  3. Confina con due province a statuto speciale (Trento e Süd-Tirol) che hanno un potere politico formidabile.
  4. Confina con una regione a statuto speciale (Friuli Venezia Giulia).
  5. Ospita consistenti minoranze linguistiche ladine e germanofone (ben superiori a quelle che hanno permesso a Trento di ottenere l’autonomia.
  6. Ha visto dal 2005 al 2014 la consultazione con referendum di sedici Comuni per chiedere il trasferimento ad altra regione confinate come stabilito dall’articolo costituzionale numero 132 secondo comma. In otto di questi (Lamon, Sovramonte, Cortina d’Ampezzo, Colle santa Lucia, Pieve di Livinallongo, Sappada, Taibon, Voltago) i referendum sono stati vinti con il 90% dei voti. Ad oggi nessuna di queste legittime richieste ha avuto una risposta.
  7. È un territorio che rappresenta il 20% del Veneto ed ha 200 mila residenti, pari al 3% dell’elettorato regionale, che riesce ad eleggere solo due consiglieri su 55 in Consiglio regionale.
  8. La legislazione locale è regionale e, per forza di cose, punta a soddisfare gli interessi della maggioranza dei Veneti che esprimono bisogni della pianura e delle città che sono, spesso, l’esatto opposto di quel che serve alle comunità che popolano la montagna.
  9. L’istituzione Provincia, che era l’unica in grado di operare una sintesi degli interessi delle comunità dolomitiche bellunesi, è stata ridotta ad un mero consorzio di Comuni, non più eletta a suffragio universale come stabilito dalla Carta europea delle autonomie locali. È stata inoltre privata di un terzo dei suoi dipendenti e di tutti i trasferimenti dello Stato (-23 milioni di euro) e delle entrate tributarie proprie (-21 milioni di euro) mettendola nella condizione di non poter operare nell’adempimento delle sue funzioni fondamentali, assegnatale dallo Stato che la priva dei mezzi per poterle esercitare.
  10. Ha quasi tutto il territorio vincolato da norme regionali e nazionali a protezione dell’ambiente. Le zone SIC e ZPS sono 43 pari al 54% del territorio bellunese, contro una media del 23% del veneto (dove Verona ne ha il 7%). Proteggere l’ambiente è una cosa buona e necessaria, ma perché lo si fa vincolando tutto il bellunese e lasciando il resto del territorio regionale libero da vincoli?

In considerazione di tutto questo l’esistenza delle comunità bellunesi è un autentico miracolo. Ma non durerà a lungo, il saldo naturale è costantemente negativo dal 1994, ed è arrivato al record di – 1223 nel 2015, abbiamo il più basso indice di natalità, di nuzialità e fecondità del nord-est, negli ultimi 8 anni il PIL è diminuito del 12%, la disoccupazione è cresciuta dal 3% al 9%, e metà dei giovani diplomati e laureati emigrano. Numeri da collasso sociale imminente se non fosse per la resistenza tenace e vigorosa della manifattura che, nonostante le formidabili difficoltà, (in 10 anni si sono perdute 1000 imprese su 15 mila) continua ad occupare il 50% degli attivi.

In questa situazione il bellunese pone alcuni problemi che vorremmo porre al centro della riflessione da offrire all’amico Michele Nardelli nel suo viaggio:

  1. Qual è oggi e quale sarà domani il destino delle aree e delle comunità periferiche?
  2. Si può coniugare la tutela delle autonomie locale con il disegno di uno stato democratico europeo?
  3. Si può consolidare il potere locale delle comunità periferiche senza produrre separatismi e conflitti?
  4. Si può consolidare il potere locale delle comunità periferiche praticando la democrazia e l’accoglienza verso gli altri o questo porta con sé necessariamente autocrazie locali ostili al prossimo loro?
  5. Il potere locale aiuta a “dirigersi verso le periferie, non solo quelle geografiche ma anche quelle esistenziali” come papa Francesco esorta a fare?
  6. Dobbiamo rassegnarci alla “brutalità e complessità nell’economia globale[10] e rinunciare alla speranza o abbiamo il dovere di proporre una visione democratica, aperta, compassionevole e solidale del diritto alla identità locale, che diventi valore universale, su cui costruire il reale riconoscimento della dignità di ogni essere umano?
  7. C’è modo di contrastare la devastante tendenza verso la concentrazione urbana e le sue terribili conseguenze sugli equilibri ecologici e politici del mondo, garantendo a chi vive nelle periferie l’accesso ai diritti?
  8. Come possiamo dare il nostro contributo per cambiare il paradigma post moderno della crescita economica come unico e autoritario modo di vedere il futuro degli uomini migliorare? Si potrà vivere bene anche con meno distribuendo meglio quello che abbiamo rispettando i limiti imposti dal nostro pianeta?

Un vasto programma per dirla con De Gaulle. Ma nelle nostre intenzioni non ci sono pretese ideologiche, non abbiamo necessità di vetrine nelle quali mostrarci pensandoci migliori degli altri, non ci servono risultati da esibire come trofei. Allo stesso modo non abbiamo soluzioni da proporre né pensiamo che le avremo dopo questo atipico giro d’Italia. Quello che desideriamo, io e Michele per primi, consapevoli dei nostri limiti, è ricominciare a parlarci per ascoltare le vite, le storie e le visioni di molti che oggi si sentono sperduti come viandanti che abbiano perduto la nozione del tempo e del luogo che attraversano. Se siamo viandanti sperduti oppure con una precisa conoscenza della rotta non lo sappiamo. Sappiamo però che un viaggio degno di questo nome lo si fa insieme. Insieme a tutti quelli che si incontrano. 

Per questo chiediamo ad ognuno di Voi di offrirci il contributo della propria esperienza partecipando ad un incontro previsto per il 23 aprile alle ore 17 presso l’ISBREC, (Istituto storico della resistenza e dell’età contemporanea) di Belluno in piazza del Mercato, oppure per realizzare degli incontri da concordare per il giorno 24 aprile 2017.

Invio a tutti i voi i materiali prodotti finora e resto In attesa di vostre adesione o richieste di chiarimenti.

Diego Cason


[1] Francesco Laudato si’, Lettera enciclica sulla cura della casa comune, Libreria editrice vaticana, 2015, punti 157,

[2] Fritjof Capra, Verso una nuova saggezza, Feltrinelli, 1989

[3] Christian de Quincey, Radical Knowing: Understanding Consciousness through Relationship (Radical Consciousness Trilogy) Paperback August 16, 2005

[4] AA.VV. Creatività e crisi della comunità locale. Nuovi paradigmi di sviluppo … Franco Angeli editore. Temi dello sviluppo locale – diretta da E. Minardi, pg. 125

[5] Edgar Morin, I sette saperi necessari all’educazione del futuro, Cortina, 2001, pp. 30-31

[6] G. Durand, Les structures anthropologiques de l’imaginaire, Grenoble 1960 (trad. it. Bari 1972).

[7] Daniel Defoe, Robinson Crusoe, Feltrinelli, Milano, 1993, pg. 166-167

[8] Zygmunt Bauman, la società dell’incertezza, Intersezioni, Il Mulino, Bologna, 1999, pg 27 e seguenti..

[9] Mc Millan W.D. Sense of community: a definition and teory, in Journal of psicology, vol. XIV, n. 1. 

[10] Saskia Sassen Espulsioni. Brutalità e complessità nell’economia globale, Il Mulino, Collezione di testi e di studi, 2015

Il pellegrinaggio in oriente

di Francesco Picciotto

Il mio amico Michele Nardelli ha cominciato il suo viaggio nella “solitudine della politica“. Intendo accompagnarlo. Almeno per un pezzo del tragitto.

In questo “orribile” tempo preelettorale, mi piace immaginarci come due viandanti muniti di zaino che percorrono una via sacra, una di quelle ormai perdute nella memoria della gente, una via che attraversa città dove si svolgono incredibili feste pagane. E noi impegnati, con la nostra mappa ormai scolorita, con la nostra bussola un po’ smagnetizzata, a cercare quel sentiero oramai ricoperto dall’asfalto, quella traccia perduta sotto strati e superfetazioni.

E’ così che me lo immagino il “nostro viaggio”, il nostro “Pellegrinaggio in Oriente”, Caro Michele, ma come tutti i cammini sacri che si rispettino ci sono alcune condizioni da rispettare, alcuni presupposti dei quali bisogna tenere conto.

Tu ed io veniamo da luoghi diversi, lontani. Sarà allora necessario prevedere un cammino propedeutico, una tappa di avvicinamento da percorerre separati. Come in ogni via francigena, come in ogni cammino di Santiango che si rispetti, c’è sempre il cammino principale e poi le strade che da ogni luogo del mondo conosciuto su di esso convergono. Tu hai cominciato il tuo cammino nel tuo nord, io ho cominciato il mio da questo sud. Non nutro alcun dubbio circa il fatto che si tratti di cammini che convergeranno.

C’è dell’altro. Per quanto si tratti di un cammino nella solitudine della politica non è certamente un cammino da intraprendere da soli. Da qualche giorno qui io ho cominciato la mia tappa di avvicinamento e ieri poi abbiamo organizzato una “sosta“, una di quelle che assieme  alla “compagnia” io ritengo elemento costituente il viaggio.

E’ stata una sosta breve, il tempo di guardarci in faccia, di dirci che è vero che ci sono persone qui, oltre a me, che questo viaggio vogliono farlo con te. Il tempo di cominciare a concordare le tappe, il contenuto dello zaino, la possibilità che ciascuno ha di fare più o meno chilometri al giorno.

Ci siamo guardati in faccia, ti dicevo, e questo atto rappresenta in se atto relazionale per eccellenza e al tempo stesso la difficoltà che è insita nella nostra sensorialità di guardare con chiarezza a noi stessi.

Guardiamo gli altri, li tocchiamo, li sentiamo con chiarezza, gli annusiamo, siamo capaci anche di gustarli, ma poco di tutto questo siamo in grado di rivolgere a noi stessi.

Solo la “propriocezione” ci viene un po’ incontro a restituirci il senso di noi stessi nello spazio ma poi ci manca, e ci manca davvero, quell’occhio interno che potrebbe segnalarci le avarie che troppo spesso ci colpiscono, quella capacità di avvertire il nostro cattivo odore che da solo potrebbe insegnarci quanto le altrui puzze sono davvero un fatto relativo. Il nostro stesso sentirci ci restituisce una versione alterata del nostro dire, del nostro emettere che il più scadente fra i riproduttori di suoni è in grado di rilevare immediatamente.

E ieri nel guardare fuori di me, nel guardare a questi amici con i quali, con tempi e modalità diversi, ho condiviso idee, azioni, battaglie, mi sono trovato stupidamente a dirgli: “ragazzi, fuori dal programma di viaggio in questa nostra terra che proporremo a Michele, voglio farvi presente che forse varrebbe la pena fare parlare i Solitari della Politica, quelli che da tanti anni, tanti da fare dire di loro che si tratta di persone “coerenti fino alla fine”, combattono in questa terra battaglie senza speranza, agiscono all’interno di percorsi talmente impervi da fare dimenticare da dove si è partiti, da rendere invisibile la meta…e questi solitari siete voi!”.

Mi sembrava di avere detto una cosa intelligentissima. Poi ho visto che loro sorridevano e ancora prima che parlassero io avevo già capito cosa stavano per dirmi: “guarda che tu sei uno di noi”.

Ma davvero io sono un solitario della politica? E prima ancora: davvero in vita mia io ho fatto politica?

Immagino che abbiano ragione, immagino che tutto quello che in questi anni ho voluto dire sulla cooperazione locale e internazionale fosse in qualche maniera espressione di un pensiero politico, immagino che il mio agire a favore dell’ambiente della mia isola avesse in ogni momento una valenza politica. Forse anche questo blog, che scrivo da più di un anno, è esso stesso un modo di agire dentro la politica.

Ma se devo credere a quello che dice Massimo Cacciari (per il quale non provo nessuna simpatia) solo perché Michele lo pone in premessa nella lettera che ha inviato a coloro ai quali ha chiesto di accompagnarlo in questo viaggio, e cioè “che cos’è fare politica, se non dire al tuo prossimo che non è solo?”, allora forse io ho fatto politica e nel farla non ho mai avvertito il peso della solitudine. Magari questo prossimo con cui e per cui la ho fatta è stato un po’ troppo prossimo, forse come dice il mio amico Giovanni, troppo spesso mi sono illuso di creare “sistemi contaminanti” quando invece mettevo in piedi solo “enclave felici” destinate per forza di isolamento ad essere soffocate da un territorio circostante com il quale non erano riuscite ad entrare in relazione, ma solo non mi sono sentito mai.

E oggi voglio dire grazie a tutte queste persone che mi hanno accompagnato in questo sentiero. A tutti quelli con i quali ho tentato di produrre un ragionamento nuovo prima sulla tutela dell’ambiente e dopo sulla sua fruzione, a tutti quelli che insieme a me hanno tentato di non subire politiche altrui nel campo  della cooperazione e hanno provato a farsele “da soli” queste politiche nuove.

Tutte queste persone voglio ringraziare. E non sono poche. Forse nemmeno tantissime ma di sicuro sono tutta la mia vita.

A molte di queste proporrò nei prossimi giorni (con alcune lo ho già fatto) di condividere questo pezzo di cammino; dovesse essere l’ultimo che faccio, lo voglio fare con loro.

Io ho già cominciato a preparare lo zaino. Sono 1 ma basta mettere anche solo uno”zero” dopo e già saremo in 10.