Categoria: Itinerari

Cortemaggiore – Incendio Pozzo nº 21 (1950)

Il Natale del 1950 fu illuminato, nella zona di Cortemaggiore, non dalla leggendaria stella cometa, ma da una fiamma, una specie di enorme torcia, alta una cinquantina di metri, che scaturiva dal suolo e che era visibile a decine di chilometri di distanza. Alle ore 3 del 1° dicembre 1950 si era infatti incendiato il pozzo n. 21 di Bersano di Besenzone, nel giacimento metanifero di Cortemaggiore. Gli operai addetti al pozzo avevano sentito alcuni violenti sussulti ed avevano fatto appena in tempo a mettersi in salvo prima che si verificasse una terribile esplosione ed iniziasse la fuoruscita del gas. Pochi minuti dopo avveniva un altro scoppio, di minore intensità, e la colonna di gas s’incendiava. Probabilmente un pezzo dell’asta metallica, scagliata contro il traliccio della torre di perforazione, aveva provocato una scintilla e quindi l’incendio. Per il calore – qualcuno parlava addirittura di 1300 gradi – l’incastellatura d’acciaio del pozzo veniva letteralmente fusa. Già a 150 metri di distanza la temperatura era insopportabile. L’esplosione aveva mandato in frantumi i vetri delle case della zona ed anche quelli di alcune finestre più lontane, persino nella zona di San Giorgio. Quella enorme colonna di fuoco che s’innalzava verso il cielo forniva un colpo d’occhio memorabile.

Non abbaiare

È domenica 22 ottobre, non un giorno qualsiasi. I veneti sono chiamati alle urne per il referendum sull’autonomia, formalmente inutile ma in realtà di straordinaria potenza politica. È in questo passaggio di tempo e di spazio che abbiamo immaginato di concludere il nostro itinerario padano con una conversazione sui temi dell’autonomia, chiamando a raccolta alcune delle persone che in questi anni e in queste terre ha cercato di coniugare federalismo e responsabilità.

Storie e percorsi politici diversi quelli che incontriamo ma anche un profondo (e per certi versi inaspettato) sentire comune. Ne viene una mattinata di confronto ricco e stimolante di cui daremo cronaca in forma compiuta. Ma essere qui a Pieve di Soligo, in questa giornata particolare, a raccogliere le idee per abitare il presente e non semplicemente – per usare la bella immagine di Diego Cason – per stare al balcone ad osservare gli eventi, significa effettivamente «essere presenti al proprio tempo».

Nella consapevolezza di essere minoranza, laddove soffia forte il vento del “prima noi”, ma anche di non trovarci a rimorchio degli avvenimenti. Cercando nella politica come nella poesia il soccorso per «non abbaiare»[1]. Grazie Andrea, c’è una rosa bianca accanto alla tua dimora.


[1]«Se qualcuno mi chiedesse d’esporre la mia poetica, d’impulso risponderei: non abbaiare». Andrea Zanzotto, ibidem

Artificialità e salute della mente

Riprendiamo il flusso dell’autostrada verso Preganziol e poi ci infiliamo nell’ordinario disordine di un modello di sviluppo che fra strade e capannoni ha trasformato questa terra in un’immensa infrastruttura logistica capace di divorare il territorio e con esso l’immaginario collettivo, quasi fosse normale vivere in un mondo tanto artificiale e inguardabile.

«Ora – diceva Andrea Zanzotto – tutta questa bruttezza che sembra quasi calata dall’esterno sopra un paesaggio particolarmente delicato, “sottile” sia nella sua parte più selvatica come le Dolomiti, sia in quella più pettinata dall’agricoltura, non può non creare devastazioni nell’ambito sociologico e psicologico. Vivere in mezzo alla bruttezza non può non intaccare un certo tipo di sensibilità, ricca e vibrante, che ha caratterizzato la tradizione veneta, alimentando impensabili fenomeni regressivi al limite del disagio mentale»[1].

Approccio che salendo verso l’area pedemontana si estende per l’appunto anche all’agricoltura dove prolifera a macchia d’olio la monocoltura del prosecco, nuovo mantra per “far schei” tanto da far immaginare a qualcuno una legge regionale per autorizzare il trattamento chimico con gli elicotteri. La quantità prima della qualità: un modello di sviluppo che ben conosciamo e destinato al fallimento.

Quando raggiungiamo Pieve di Soligo è tarda sera e proprio nell’infilarci nel vecchio albergo che casualmente abbiamo prenotato nella piazza principale del borgo trevigiano ci rendiamo conto di quanto avesse ragione Zanzotto e di come lo spaesamento possa essere persino dentro i luoghi e le cose. Alfred Hitchcock avrebbe potuto ambientarci “Psyco”. La pioggia che ci accoglie al mattino non aiuta a vedere le cose diversamente.


[1]Andrea Zanzotto, In questo progresso scorsoio. Conversazione con Marzio Breda. Garzanti, 2009

Crinali da abitare

Un crinale che proviamo ad indagare nell’incontro a Padova con la Coalizione Civica che ha contribuito in maniera determinante all’affermazione della coalizione più vasta che sosteneva la candidatura a sindaco di Sergio Giordani. Contro ogni aspettativa, contro il segretario della Liga Veneta e sindaco uscente Massimo Bitonci, contro la frammentazione politica della sinistra e tanto altro ancora, sono riusciti in una cosa affatto secondaria, dare anima e cuore alle tante persone deluse e allontanate da una politica incapace di visione e ridotta a strumento di potere. Incontriamo i protagonisti di Coalizione civica a conclusione di un gruppo di lavoro dedicato alle forme del loro stare insieme, argomento tutt’altro che banale. Tanto è vero che nell’ascoltarli si ha la sensazione che proprio il metodo più di ogni altro contenuto sia stato l’elemento capace di fare la differenza rispetto ad esperienze precedenti.

So che il metodo è sostanza e però inizio ad averne le tasche piene di un concetto – come sottotitola il libro di Michel Serres[1] – «dal quale non nasce niente». Forse per questo faccio un po’ di fatica a ritrovarmi nel loro racconto. Ma siamo qui in primo luogo per ascoltare e cercare di capire quel che di interessante si muove, specie in una città complessa come Padova che in questi decenni è continuamente passata di mano fra gli schieramenti e in sofferenza per come è stata ridotta, specchio di un moltiplicarsi di interessi piuttosto che di un disegno che se c’era rispondeva ai poteri forti (ed è sufficiente guardarsi intorno per comprenderlo). Ma ora? Un disegno alternativo c’è? E quali cambi di paradigma impone? Forse è ancora troppo presto per dare una risposta.

Mentre cerchiamo una strada verso l’ultima meta del nostro itinerario, Pieve di Soligo, è già notte. Sarà la stanchezza, ma fra noi aleggia un po’ di perplessità per quest’ultima conversazione. Troppo alte le nostre aspettative? Troppo poco tempo per approfondire? Mi colpisce che nessuno ci abbia chiesto qualcosa di questo nostro viaggio, come se la politica dovesse rispondere ad altro rispetto alle nostre domande. Veniamo da una terra dove il centrosinistra autonomista vince le elezioni da quasi venticinque anni, molti dei quali – a guardare il nord di questo paese – in perfetta solitudine. Forse che se oggi ci poniamo domande alte ciò non abbia a che fare con la considerazione che si può vincere e perdere, insieme?


[1]Michele Serres, Il mancino zoppo. Bollati Boringhieri, 2016

Soldi in cambio dell’anima

Dopo due giorni di cielo grigio riappare il sole sui campi arati di fresco. I capannoni che ora s’incontrano sono quelli di una filiera agroalimentare messa a dura prova dalle monocolture e dalle multinazionali, ma dove è ancora possibile ricominciare dalla qualità e dalle unicità. Ad Iris nel 1978 erano partiti dalle siepi, per fermare le derive e segnare una diversità, ma oggi la sfida è quella di contaminare alle buone pratiche, dimostrando che qualità e redditività si possono incontrare. Ripartire dalle cose vere, ci diceva Emilio nell’incontro di Brescia, tornare alla “madre terra”, appunto.

È questo uno dei grandi temi che il confronto sui modelli di sviluppo e sulle città dovrebbe porre, nel cercare le strade per ridurre la nostra impronta ecologica. Nella sua casa di Vigodarzere ne parliamo con Gianni Tamino, biologo ed ambientalista, già parlamentare nazionale ed europeo. Il suo racconto sul boom economico del secondo dopoguerra ci aiuta a comprendere i processi di snaturamento culturale e sociale dei territori, dove il demone del denaro non ha portato al miglioramento della qualità del vivere. «Soldi, e tanti, in cambio dell’anima» amava dire Andrea Zanzotto. Aumento del PIL e della solitudine. Un paradigma dove l’uomo diviene ingranaggio di una macchina che non ha bisogno di coesione sociale ma di individui isolati, in lotta con il prossimo.

Nel frattempo ci ha raggiunti Federico Zappini. Mentre conversiamo con Gianni, storie e saperi ma anche generazioni s’intrecciano come non sempre accade, gelosi come siamo dei nostri ruoli e di quel poco o tanto di potere che ci portiamo appresso. Le nostre analisi si toccano, così l’impellente necessità di un cambio dei paradigmi con cui ridisegnare il futuro. Non è poco, anzi. Ma quando tocchiamo l’argomento del referendum del giorno dopo, misuriamo diversità e distanze. Quasi che le istanze del federalismo fossero impraticabili e non invece una sfida da accettare per sconfiggere i centralismi, quelli nazionali come quelli regionali. Penso a quanto nella mia terra c’è voluto affinché l’autonomia diventasse un terreno fertile sul quale costruire partecipazione, responsabilità e cambiamento. E a quanto possa essere veloce il suo declino in assenza di una narrazione capace di sfuggire al “prima noi”. Crinali taglienti, certo, che ciò non di meno richiedono di essere percorsi.