Categoria: Intorno al viaggio

Il pellegrinaggio in oriente

di Francesco Picciotto

Il mio amico Michele Nardelli ha cominciato il suo viaggio nella “solitudine della politica“. Intendo accompagnarlo. Almeno per un pezzo del tragitto.

In questo “orribile” tempo preelettorale, mi piace immaginarci come due viandanti muniti di zaino che percorrono una via sacra, una di quelle ormai perdute nella memoria della gente, una via che attraversa città dove si svolgono incredibili feste pagane. E noi impegnati, con la nostra mappa ormai scolorita, con la nostra bussola un po’ smagnetizzata, a cercare quel sentiero oramai ricoperto dall’asfalto, quella traccia perduta sotto strati e superfetazioni.

E’ così che me lo immagino il “nostro viaggio”, il nostro “Pellegrinaggio in Oriente”, Caro Michele, ma come tutti i cammini sacri che si rispettino ci sono alcune condizioni da rispettare, alcuni presupposti dei quali bisogna tenere conto.

Tu ed io veniamo da luoghi diversi, lontani. Sarà allora necessario prevedere un cammino propedeutico, una tappa di avvicinamento da percorerre separati. Come in ogni via francigena, come in ogni cammino di Santiango che si rispetti, c’è sempre il cammino principale e poi le strade che da ogni luogo del mondo conosciuto su di esso convergono. Tu hai cominciato il tuo cammino nel tuo nord, io ho cominciato il mio da questo sud. Non nutro alcun dubbio circa il fatto che si tratti di cammini che convergeranno.

C’è dell’altro. Per quanto si tratti di un cammino nella solitudine della politica non è certamente un cammino da intraprendere da soli. Da qualche giorno qui io ho cominciato la mia tappa di avvicinamento e ieri poi abbiamo organizzato una “sosta“, una di quelle che assieme  alla “compagnia” io ritengo elemento costituente il viaggio.

E’ stata una sosta breve, il tempo di guardarci in faccia, di dirci che è vero che ci sono persone qui, oltre a me, che questo viaggio vogliono farlo con te. Il tempo di cominciare a concordare le tappe, il contenuto dello zaino, la possibilità che ciascuno ha di fare più o meno chilometri al giorno.

Ci siamo guardati in faccia, ti dicevo, e questo atto rappresenta in se atto relazionale per eccellenza e al tempo stesso la difficoltà che è insita nella nostra sensorialità di guardare con chiarezza a noi stessi.

Guardiamo gli altri, li tocchiamo, li sentiamo con chiarezza, gli annusiamo, siamo capaci anche di gustarli, ma poco di tutto questo siamo in grado di rivolgere a noi stessi.

Solo la “propriocezione” ci viene un po’ incontro a restituirci il senso di noi stessi nello spazio ma poi ci manca, e ci manca davvero, quell’occhio interno che potrebbe segnalarci le avarie che troppo spesso ci colpiscono, quella capacità di avvertire il nostro cattivo odore che da solo potrebbe insegnarci quanto le altrui puzze sono davvero un fatto relativo. Il nostro stesso sentirci ci restituisce una versione alterata del nostro dire, del nostro emettere che il più scadente fra i riproduttori di suoni è in grado di rilevare immediatamente.

E ieri nel guardare fuori di me, nel guardare a questi amici con i quali, con tempi e modalità diversi, ho condiviso idee, azioni, battaglie, mi sono trovato stupidamente a dirgli: “ragazzi, fuori dal programma di viaggio in questa nostra terra che proporremo a Michele, voglio farvi presente che forse varrebbe la pena fare parlare i Solitari della Politica, quelli che da tanti anni, tanti da fare dire di loro che si tratta di persone “coerenti fino alla fine”, combattono in questa terra battaglie senza speranza, agiscono all’interno di percorsi talmente impervi da fare dimenticare da dove si è partiti, da rendere invisibile la meta…e questi solitari siete voi!”.

Mi sembrava di avere detto una cosa intelligentissima. Poi ho visto che loro sorridevano e ancora prima che parlassero io avevo già capito cosa stavano per dirmi: “guarda che tu sei uno di noi”.

Ma davvero io sono un solitario della politica? E prima ancora: davvero in vita mia io ho fatto politica?

Immagino che abbiano ragione, immagino che tutto quello che in questi anni ho voluto dire sulla cooperazione locale e internazionale fosse in qualche maniera espressione di un pensiero politico, immagino che il mio agire a favore dell’ambiente della mia isola avesse in ogni momento una valenza politica. Forse anche questo blog, che scrivo da più di un anno, è esso stesso un modo di agire dentro la politica.

Ma se devo credere a quello che dice Massimo Cacciari (per il quale non provo nessuna simpatia) solo perché Michele lo pone in premessa nella lettera che ha inviato a coloro ai quali ha chiesto di accompagnarlo in questo viaggio, e cioè “che cos’è fare politica, se non dire al tuo prossimo che non è solo?”, allora forse io ho fatto politica e nel farla non ho mai avvertito il peso della solitudine. Magari questo prossimo con cui e per cui la ho fatta è stato un po’ troppo prossimo, forse come dice il mio amico Giovanni, troppo spesso mi sono illuso di creare “sistemi contaminanti” quando invece mettevo in piedi solo “enclave felici” destinate per forza di isolamento ad essere soffocate da un territorio circostante com il quale non erano riuscite ad entrare in relazione, ma solo non mi sono sentito mai.

E oggi voglio dire grazie a tutte queste persone che mi hanno accompagnato in questo sentiero. A tutti quelli con i quali ho tentato di produrre un ragionamento nuovo prima sulla tutela dell’ambiente e dopo sulla sua fruzione, a tutti quelli che insieme a me hanno tentato di non subire politiche altrui nel campo  della cooperazione e hanno provato a farsele “da soli” queste politiche nuove.

Tutte queste persone voglio ringraziare. E non sono poche. Forse nemmeno tantissime ma di sicuro sono tutta la mia vita.

A molte di queste proporrò nei prossimi giorni (con alcune lo ho già fatto) di condividere questo pezzo di cammino; dovesse essere l’ultimo che faccio, lo voglio fare con loro.

Io ho già cominciato a preparare lo zaino. Sono 1 ma basta mettere anche solo uno”zero” dopo e già saremo in 10.

Alla ricerca delle lucciole

«Il viaggio a me sembra la forma d’intimità per eccellenza, forse perché consente il dialogo ma accoglie anche il silenzio: rispetta le solitudini, lascia spazio al discorso interiore e alla contemplazione. Il paesaggio che scorre cattura lo sguardo, è un pensiero condiviso. Così l’andare insieme assomiglia molto al vivere insieme: c’è un rapporto di coppia, un percorso più o meno accidentato, il tempo necessario ad arrivare in fondo»

Paolo Cognetti, “A pesca nelle pozze più profonde” (Minimum fax)

di Federico Zappini

(17 febbraio 2017) Se non fosse già stata usata in mille altre occasione si potrebbe far riferimento alla metafora biblica della traversata del deserto. Bene si adatterebbe alla solitudine da cui abbiamo deciso di partire, se non fosse che il contesto politico dentro il quale ci muoviamo non è caratterizzato solo da un’interminabile serie di vuoti (linguistici, valoriali, organizzativi) ma anche e soprattutto da un livello di saturazione (“l’abbagliante luce prodotta dalla modernità”, così come la descrive Huberman [1]) che opprime e che disorienta. Lo spazio della riflessione, dell’approfondimento, dell’analisi e del confronto – alla base di qualunque sistema politico e sociale che pretenda di funzionare – è oggi quanto di meno praticabile e accogliente si possa immaginare. Saturo appunto, in un mix letale di conformismo e indifferenza.

Ne scrive benissimo Ugo Morelli: «Noi tutti siamo saturi di informazioni che non riescono a farci avere un’idea di un problema o di un fenomeno e, confusi, ci dimeniamo nelle selve del presente. Si dimena pure il linguaggio della politica che, forse, è uno dei luoghi della massima saturazione. Lo svuotamento di significati del gergo pare una parabola inarrestabile e ogni tentativo di proporre una controtendenza è riassorbito e sepolto nella palude del già visto o del non senso». Eppure le forme della politicizzazione – come si tenta a volte, con eccesso di semplificazione, di argomentare – non sono venute meno, anzi. Solo assumono forme, nel bene e nel male, molto diverse da quelle che sappiamo riconoscere, che riteniamo legittime di essere prese in considerazione. La maggior parte di esse, almeno tra quelle che assumono maggiore evidenza mediatica, non riescono ad assumere funzione generativa e si accontentano (o addirittura rivendicano) la propria azione di freno, di rinserramento, di conservazione.

E’ dentro questo scenario che bisogna lavorare, almeno per cominciare, nei termini della ricerca, della curiosa osservazione. Vanno individuate le lucciole – sempre citando le preziose riflessioni di Huberman – che vedono dissipare la propria delicata luminosità nell’accecante bagliore dentro il quale sono costrette a muoversi. Non vanno riunite ma riconnesse, fatte riconoscere vicendevolmente. Non nell’ipotesi di costruire in vitro soggetti politici o di raccogliere – ancora? – firme in calce a nuovi Manifesti. Non con l’obiettivo di ridurne le differenze e unicità a forzate quanto instabili identità. Non con la spocchia di possedere in partenza risposte ma con l’urgenza di condividere domande all’altezza dei “tempi interessanti” che stiamo attraversando, intesi nella forma ambivalente di benedizione/maledizione che deriva dalla tradizione cinese.

Se queste non fossero le premesse fondative di questo viaggio che fa della solitudine un motivo di necessaria attivazione, quella che stiamo vedendo dispiegarsi scompostamente attorno a noi potrebbe addirittura apparirci come una fase di rinnovamento della geografia politica. Ma la moltiplicazione di partiti, partitini e movimenti unita alla frenesia che attanaglia la scalcagnata classe politica italiana (perché sempre di manovre tutte interne agli addetti ai lavori si tratta) rischia di essere il tossico rimasuglio di un inverno lungo e rigido dal quale fatichiamo ad uscire.

La cosa che sembra sfuggire ai più è che il problema non sta nel contenitore, quasi si confondesse un partito con un circolo tennis o un centro commerciale che deve incrociare, in termini di marketing politico, i desideri e i gusti di “pezzi di società” alla ricerca di un nuovo prodotto da acquistare e nel quale riconoscersi. Ognuno degli esperimenti – frutto di scissioni imminenti, di fusioni frettolose, di pruriti identitari – che in queste settimane animano la cronaca e i retroscena giornalistici assomigliano a esercizi di stile (spesso del tutto autoreferenziali) piuttosto che processi di riaffermazione del ruolo della politica. Una dicotomia decisiva, letale, apparentemente insanabili.

Il viaggio che abbiamo in mente non é quello che altri condurranno esponendo le proprie tesi congressuali. Preferiamo il dubbio alle certezze e non ci spaventa la categoria del tradimento. Non sarà nemmeno il filo rosso che tiene insieme la geografia della paura e del rancore (che ha già numerosi interpreti) o quella delle emergenze e degli interessi particolare (anche questa sufficientemente rappresentata). A questi schemi preferiamo i tempi lunghi, magari non del tutto a ritmo con la frenesia dell’attualità, e la complessità.

E’ un percorso che non si dà un termine preciso e questa indeterminatezza – apparentemente sconveniente, addirittura pericolosa in un tempo nel quale sembra obbligatorio annunciare in partenza il proprio posizionamento e la propria traiettoria, i propri riferimenti e i propri nemici – è per il momento una garanzia di libertà, autonomia, non dipendenza. La radicalità sarà una delle chiavi di lettura necessarie, non in quanto mera enunciazione di propositi ma come sperimentazione di alterità all’esistente, inteso come conservazione di una serie di paradigmi che oggi contribuiscono a definire il concetto di stabilità e di non alternativa possibile.

Non è un caso che nel primo “sopralluogo” per immaginare un itinerario capace di coinvolgere il nord-ovest italiano ci sia capitato di passare la mattina a discutere di terre alte e aree interne, di trasformazione dei modelli produttivi, di nuovi paradigmi dello sviluppo nella casa e tra gli scaffali che ospitano l’archivio di Piero Gobetti e di bere un caffè in uno spazio di co-working a poche centinaia di metri di distanza parlando di progetti di riqualificazione urbana a base culturale e di ecosistemi innovativi nel meridione, tra Europa e Mediterraneo. Non contenti abbiamo concluso la nostra esplorazione piemontese spingendoci fino a Ivrea, lì dove Adriano Olivetti sperimentò un modello di relazione tra fabbrica e comunità, tra tecnologia e cultura, tra imprenditoria e inclusione sociale. Un’ipotesi che mantiene ancora oggi – nonostante la malinconica condizione di generale dimenticanza del lascito olivettiano – tratti di incredibile modernità.

Sifr (zero, nella lingua araba) è questo. Il tentativo di trovare compagni di viaggio curiosi e disponibili a mettersi in gioco. La speranza di riuscire a introdurre nella stanca condizione della politica uno o più elementi – così come avvenne con la comparsa del numero 0 – capaci di sparigliare le carte e di offrire lo spunto per una nuova prassi della politica, a ogni livello. Pronti, attenti, via.

Preparazione al viaggio: la tappa milanese

«È un fenomeno sempre più rilevante: pezzi interi della «generazione perduta» cercano rifugio e possibilità in montagna. Costretti da una crisi e da una precarietà infinite, uomini e donne si spostano fuori dalla città, in un complesso movimento migratorio «al contrario», tutto da scoprire e interpretare. Nascono così progetti di vita innovativi, basati su modelli alternativi di sviluppo, sulla green economy e sulla soft economy. Nascono nuove storie e nuove creatività. Vecchi borghi vengono ripopolati. Antiche strade vengono risvegliate».

Maurizio Dematteis, Via dalla città