Categoria: Editoriale

Invito al confronto

Egregi Signori e Signore, cari amici e amiche,

ho ricevuto da Michele Nardelli la seguente sollecitazione.

Quando l’ho letto ho aderito senza esitazione e ho deciso di aiutarlo ad organizzare la seconda tappa del suo viaggio in provincia di Belluno. Per iniziare immagino sia utile che conosciate Michele. Prima di tutto è uno dei fondatori dell’Osservatorio Balcani Caucaso transeuropa, OBC Transeuropa,

Troverete tutto quello che serve per farvi la vostra idea. Io lo conosco da alcuni anni e sento che ci unisce la capacità di osservare il mondo nel quale c’è data la grazia e l’avventura di vivere. Ma non ci accontentiamo di starci. Avvertiamo il dovere e il privilegio di agire, nei limiti delle nostre competenze, per renderlo un posto migliore. Senza pretese, sapendo che il meglio è quasi sempre un nemico del bene. Condividiamo questo desiderio con molti che conosciamo e con moltissimi che non conosceremo mai che sanno, come dice Papa Francesco nella sua Enciclica “Laudato si’: “Il bene comune esige il rispetto della persona umana in quanto tale, con diritti fondamentali e inalienabili ordinati al suo sviluppo integrale. Basta osservare la realtà per comprendere che oggi questa opzione è una esigenza etica fondamentale per l’effettiva realizzazione del bene comune.

 Le considerazioni dell’Enciclica non si rivolgono solo ai fedeli cattolici, chiamano ognuno ad una riflessione ineludibile:

Molte cose devono riorientare la propria rotta, ma prima di tutto è l’umanità che ha bisogno di cambiare. Manca la coscienza di un’origine comune, di una mutua appartenenza e di un futuro condiviso da tutti. Questa consapevolezza di base permetterebbe lo sviluppo di nuove convinzioni, nuovi atteggiamenti e stili di vita. Emerge così una grande esigenza culturale, spirituale e educativa che implicherà lunghi processi di rigenerazione.”

L’essere umano: “accetta gli oggetti ordinari e le forme consuete della vita così come gli sono imposte dai piani razionali e dalle macchine normalizzate e, nel complesso, lo fa con l’impressione che tutto questo sia ragionevole e giusto.  Tale paradigma fa credere a tutti che sono liberi perché conservano una pretesa libertà di consumare, quando in realtà coloro che possiedono la libertà sono quelli che fanno parte della minoranza che detiene il potere economico e finanziario. In questa confusione, l’umanità postmoderna non ha trovato una nuova comprensione di sé stessa che possa orientarla, e questa mancanza di identità si vive con angoscia. Abbiamo troppi mezzi per scarsi e rachitici fini.”[1]

Ci serve un cambio di paradigma, secondo la definizione di Fritjof Capra: “A paradigm is a constellation of concepts, values, perceptions and practices shared by a community, which forms a particular vision of reality.[2] Integrata da quella proposta da Christian de Quincey: ‘[A paradigm] is like a superstructure of ideas, a scaffolding upon which we hand our understanding, our ‘knowledge’ of reality.[3]

Per comprenderne il significato, non c’è di meglio di George Bernard Shaw: “The reasonable man adapts himself to the world. The unreasonable man persists in trying to adapt the world to himself. Therefore, all progress depends on the unreasonable man.

Sia pure molto lentamente gli economisti stanno abbandonando il feticcio del Pil ed immaginano nuovo modo per esercitare la contabilità sociale. Un sistema che permetta ad un paese, ad ogni comunità, di costruire di scegliere democraticamente una combinazione, necessariamente differente, degli obiettivi riguardanti l’auspicabile stato della ricchezza, la diseguaglianza, la protezione sociale, la sicurezza la salute, l’educazione, la qualità dell’ambiente. In una parola poter definire liberamente il proprio benessere.[4]

Occorre liberarsi di vecchi modi di pensare e affrontare i problemi in maniera nuova, giocare con le idee perché le persone austere, senza creatività, non sono quasi mai in grado di avere buone intuizioni, ovvero utilizzare buone idee altrui; essi non vanno oltre alle parole scarsità, necessità e regione. In questo modo si ha una visione del mondo legata alla sola presenza delle cose e ai vincoli che esse impongono all’umanità. In nome della scarsità dei beni, si giustifica, però, che pochi si approprino di molto e moltissimi non abbiano il minimo indispensabile. Ma è necessario guardare l’altro lato della questione, ovvero al modo in cui nascono i desideri, poiché da essi dipendono i bisogni. Non sono le risorse limitate che impongono la diseguaglianza, bensì l’illimitata crescita dei desideri che rende insufficienti le risorse del pianeta che ci ospita.

Già lo intuì Giacomo Leopardi nella prima delle sue operette morali, Storia del genere umano: “appartiene alla propria natura degli uomini, che non può loro bastare, come agli altri animali, vivere ed essere liberi da ogni dolore e molestie del corpo; anzi, che bramando sempre in qualunque stato l’impossibile, tanto più si travagliano con questo desiderio da sé medesimi, quantomeno sono afflitti dagli altri mali…”

Per dirlo con Morin: “L’inatteso ci sorprende. Il fatto è che ci siamo installati con troppo grande sicurezza nelle nostre teorie e nelle nostre idee, e che queste non hanno nessuna struttura di accoglienza per il nuovo. Non possiamo mai prevedere il modo in cui si presenterà, ma dobbiamo aspettarci la sua venuta, cioè attenderci l’inatteso. E, una volta giunto l’inatteso, si dovrà essere capaci di rivedere le nostre teorie e idee …”[5]

Ogni società per esistere deve immaginarsi il proprio futuro. Tutte le comunità umane hanno cercato nel loro passato gli elementi della cultura su cui fondare le basi sociali della personalità delle nuove generazioni. I miti e gli eroi sono sempre stati utili per proporre, con i modelli che implicano, modalità di comportamento e proiezioni sociali accettabili e condivisibili, capaci di unire i membri della comunità fra loro e verso uno scopo.[6]

La realtà contemporanea mostra i sintomi del mutamento in corso: dall’individualismo sempre più marcato, dal narcisismo all’edonismo sempre più cinico; la trasversalità del potere che si impone anche senza ideologie apparenti. Non esistono più verità assolute, ognuno crea un proprio mondo rivendicando il diritto di mescolare senza discernimento nuove tecnologie con superstizioni e riti tribali.

Una delle superstizioni cui mi riferisco è la stessa di Robinson Crusoe:

Una mattina, verso mezzogiorno, mentre mi avviavo verso la barca, con mia enorme sorpresa vidi nitidissima, impressa nella sabbia della spiaggia, l’orma di un piede umano scalzo. Rimasi immobile, fulminato come se avessi visto uno spettro. Tesi l’orecchio, mi guardai attorno, ma non sentii alcun rumore, non vidi nulla. Salii sopra un’altura per spingere lo sguardo più lontano. Percorsi la spiaggia in lungo e in largo, ma non vidi nessun’altra impronta oltre a quella. Tornai sui miei passi per vedere se ci fossero altre orme, oltre a quella, e per assicurarmi che non si fosse trattato di un’allucinazione; ma non c’erano dubbi: si trattava proprio dell’impronta di un piede, con le dita, il calcagno e ogni altra sua parte. Come potesse trovarsi in quel modo non lo sapevo, né potevo assolutamente immaginarlo. Ma dopo aver avanzato fra me e me le più svariate e confuse ipotesi, come può accadere a un uomo letteralmente stravolto e sbigottito, feci ritorno alla mia fortezza … in preda a indescrivibile terrore, guardandomi alle spalle ogni due o tre passi, credendo di vedere chissà che in ogni albero e in ogni cespuglio, e scambiando per un uomo tutti i tronchi che mi apparivano di lontano. Quando raggiunsi il mio castello, mi rifugiai all’interno come se fossi stato inseguito da qualcuno. Quella notte non chiusi occhio. Più ero lontano dalla fonte del mio terrore, più sentivo aumentare la mia angoscia. Ciò può sembrare contraddittorio ma la mia angoscia era provocata dalle idee spaventose che io stesso alimentavo in me, elaborando sul fatto le più sinistre fantasie e sebbene in quel momento mi trovassi molto lontano dal luogo in cui avevo fatto quella scoperta spaventosa. A volte ero indotto a pensare che quella fosse l’orma del demonio, e la ragione sembrava confortare una siffatta ipotesi: com’era possibile, infatti, che un essere umano fosse giunto in un luogo simile? Dov’era la nave che lo aveva portato sin lì? La paura soffocava in me ogni religioso sentimento di speranza.[7]

La paura è il prodotto dell’incertezza e la paura produce nuova incertezza. Il disagio che esisteva nella modernità nasceva un tipo di sicurezza sociale che assegnava alla libertà un ruolo troppo limitato nella ricerca della felicità individuale. Il disagio della postmodernità nasce da una libertà nella ricerca del piacere che lascia uno spazio troppo limitato alla sicurezza individuale. Nella vita intesa come gioco dai consumatori postmoderni, le regole cambiano continuamente, la strategia vincente è quella di chiudere ogni partita velocemente, dividendo ogni sfida volta a dare senso al mondo in una serie di partite brevi e veloci. Si usa definire questo modello della vita quotidiana come un “vivere alla giornata” che diventa una successione di piccole emergenze che elimina ogni impegno a lungo termine.  Il presente esiste separato dal passato e dal futuro in questo modo il tempo diventa una sequenza arbitraria di momenti presenti nei quali si possono adottare diversi comportamenti ed identità sfuggendo alla responsabilità degli atti compiuti prima di oggi, di adesso. In questo modo le gratificazioni future per l’impegno presente e continuo perdono di significato E non sono più in grado di motivare l’agire razionale verso un obiettivo successivo. Il soddisfacimento del desiderio-bisogno immediato diventa il principale fattore dell’agire. Ciò induce a una perdita di responsabilità nei confronti di quel che si è compiuto e delle conseguenze che questo può aver prodotto sugli altri.

L’incertezza che ne deriva è opprimente e produce una sorta di assedio della paura.

Per Zygmunt Bauman alcuni dei fattori che lo alimentano sono:

A) il nuovo disordine mondiale;

B) la “deregulation” universale;

C) il venir meno delle reti di protezione dei rapporti di vicinato e familiari;

D) la continua contrattazione delle relazioni sociali e la loro breve durata;

E) la frammentazione delle identità sociali individuali.[8]

Ogni elemento che produce ulteriore incertezza ed insicurezza è visto come un nemico, comprese le persone che ci appaiono inutili al fine di soddisfare un nostro desiderio. Esse diventano meritevoli d’odio se appaiono un richiamo a qualsiasi tipo di responsabilità etica e sociale e, quindi, un ingiustificato ostacolo al proprio agire. Non per caso un 48% degli europei ritiene l’immigrazione il principale elemento di insicurezza a partire dal 2014. Prima la preoccupazione prevalente era quella relativa alle difficoltà economiche e alla disoccupazione.

Il paradigma della crescita, dello sviluppo, ha prodotto un’umanità postmoderna che assume valore solo se consuma. E’ il paradosso del ciclista: finche si muove rimane in equilibrio, se viene meno l’accelerazione o la forza d’inerzia cade. Le società formate da individui motivati solo dalla soddisfazione dei desideri individuare non può rimanere coesa ed è preludio a conflitti sempre più estesi.

Ecco allora che il viaggio proposto da Michele Nardelli arriva al momento giusto. Si pone l’obiettivo di andare ad ascoltare gli altri, che vivono esperienze differenti, che cercano strade diverse, per costruire relazioni e legami significativi capaci di strappare l’uomo e le comunità postmoderne dalla loro prigione di consumatori desideranti.

Non vi è dubbio che le considerazioni fatte finora si riferiscono prevalentemente a paradigmi costruiti su misura delle realtà urbane. Per questo che le aree periferiche e marginali sono quelle che ospitano le più interessanti esperienze innovative capaci definire un nuovo paradigma per interpretare il mondo e rispettarne l’integrità. O più modestamente per trovare il modo di viverci, da ospiti meno invadenti e distruttivi.

Per questo la seconda tappa del suo viaggio avverrà a Belluno. Il territorio dolomitico è una in una situazione speciale. E questo non per ragioni etniche o per presunte superiorità dei bellunesi rispetto ad altre persone che abitano il pianeta in altri luoghi. Ognuno sa che una comunità di umani necessita di integrazione e soddisfazione dei bisogni individuali e collettivi, di connessioni emotive condivise[9], di potere, inteso come percezione della capacità di influire sulla realtà, e di senso di appartenenza. Non diversamente dagli individui anche le comunità hanno bisogno di autostima. Se ce l’hanno sono in grado di accettare e ospitare la novità, l’estraneo, lo sconosciuto, il diverso. Se non ce l’hanno si produce razzismo e isolamento, solitudine, disgregazione e indifferenza. Una comunità forte e consapevole di sé garantisce sicurezza individuale e collettiva ma, inevitabilmente, limita la libertà individuale “costringendo” entro regole condivise l’agire dei suoi membri. Per questo motivo le persone fuggono dalle piccole comunità e sono attirate dall’anonimato della convivenza urbana che lascia ampia libertà all’individuo poiché i cittadini sono slegati gli uni dagli altri (perché indipendenti economicamente) e per questo più facilmente indifferenti e soli. Le comunità di dimensioni ridotte, come quelle che popolano le Alpi, e le Dolomiti in particolare, che non hanno potuto e saputo equilibrare l’appartenenza comunitaria e la libertà individuale, si sono disintegrate e non esistono più. Quelle che hanno mantenuto vive le connessioni emotive e che hanno avuto sufficiente potere sono sopravvissute e prosperano. Le comunità bellunesi hanno avuto, in seguito al crimine del Vajont, un eccezionale apporto di investimenti pubblici (più di 200 miliardi di lire) dal 1965 al 1990 che ha permesso loro, tramite la piena occupazione in manifattura, di soddisfare i propri bisogni materiali. Questo ha permesso la sopravvivenza di gran parte delle connessioni emotive nelle reti sociali finché i vincoli di parentela sono stati estesi e la mobilità occupazionale ridotta. Le vicende vissute insieme nel corso del ‘900 hanno prodotto un sentimento di appartenenza assai robusto e resiliente al fascino dell’urbano e del cosmopolitismo. Il quarto elemento su cui si fondano comunità dinamiche e floride, invece, è stato costantemente eroso fino all’attuale annichilimento. Le comunità bellunesi avvertono con chiarezza che non hanno più rappresentanza politica e che il loro potere contrattuale con le altre istituzioni (stato e regione) è svanito. Si sentono in pericolo ed esposti al rischio di dissoluzione della loro sicurezza e del loro benessere arrivato tardi e in modo molto veloce. Questa possibilità è tutt’altro che remota.

Il bellunese ha dieci particolarità presenti anche in altre comunità alpine e rurali ma non tutte dieci insieme, contemporaneamente, in un unico territorio.

  1. È interamente montano con quote medie delle residenze di circa 800 mt. slm.
  2. Confina con uno stato estero (Austria).
  3. Confina con due province a statuto speciale (Trento e Süd-Tirol) che hanno un potere politico formidabile.
  4. Confina con una regione a statuto speciale (Friuli Venezia Giulia).
  5. Ospita consistenti minoranze linguistiche ladine e germanofone (ben superiori a quelle che hanno permesso a Trento di ottenere l’autonomia.
  6. Ha visto dal 2005 al 2014 la consultazione con referendum di sedici Comuni per chiedere il trasferimento ad altra regione confinate come stabilito dall’articolo costituzionale numero 132 secondo comma. In otto di questi (Lamon, Sovramonte, Cortina d’Ampezzo, Colle santa Lucia, Pieve di Livinallongo, Sappada, Taibon, Voltago) i referendum sono stati vinti con il 90% dei voti. Ad oggi nessuna di queste legittime richieste ha avuto una risposta.
  7. È un territorio che rappresenta il 20% del Veneto ed ha 200 mila residenti, pari al 3% dell’elettorato regionale, che riesce ad eleggere solo due consiglieri su 55 in Consiglio regionale.
  8. La legislazione locale è regionale e, per forza di cose, punta a soddisfare gli interessi della maggioranza dei Veneti che esprimono bisogni della pianura e delle città che sono, spesso, l’esatto opposto di quel che serve alle comunità che popolano la montagna.
  9. L’istituzione Provincia, che era l’unica in grado di operare una sintesi degli interessi delle comunità dolomitiche bellunesi, è stata ridotta ad un mero consorzio di Comuni, non più eletta a suffragio universale come stabilito dalla Carta europea delle autonomie locali. È stata inoltre privata di un terzo dei suoi dipendenti e di tutti i trasferimenti dello Stato (-23 milioni di euro) e delle entrate tributarie proprie (-21 milioni di euro) mettendola nella condizione di non poter operare nell’adempimento delle sue funzioni fondamentali, assegnatale dallo Stato che la priva dei mezzi per poterle esercitare.
  10. Ha quasi tutto il territorio vincolato da norme regionali e nazionali a protezione dell’ambiente. Le zone SIC e ZPS sono 43 pari al 54% del territorio bellunese, contro una media del 23% del veneto (dove Verona ne ha il 7%). Proteggere l’ambiente è una cosa buona e necessaria, ma perché lo si fa vincolando tutto il bellunese e lasciando il resto del territorio regionale libero da vincoli?

In considerazione di tutto questo l’esistenza delle comunità bellunesi è un autentico miracolo. Ma non durerà a lungo, il saldo naturale è costantemente negativo dal 1994, ed è arrivato al record di – 1223 nel 2015, abbiamo il più basso indice di natalità, di nuzialità e fecondità del nord-est, negli ultimi 8 anni il PIL è diminuito del 12%, la disoccupazione è cresciuta dal 3% al 9%, e metà dei giovani diplomati e laureati emigrano. Numeri da collasso sociale imminente se non fosse per la resistenza tenace e vigorosa della manifattura che, nonostante le formidabili difficoltà, (in 10 anni si sono perdute 1000 imprese su 15 mila) continua ad occupare il 50% degli attivi.

In questa situazione il bellunese pone alcuni problemi che vorremmo porre al centro della riflessione da offrire all’amico Michele Nardelli nel suo viaggio:

  1. Qual è oggi e quale sarà domani il destino delle aree e delle comunità periferiche?
  2. Si può coniugare la tutela delle autonomie locale con il disegno di uno stato democratico europeo?
  3. Si può consolidare il potere locale delle comunità periferiche senza produrre separatismi e conflitti?
  4. Si può consolidare il potere locale delle comunità periferiche praticando la democrazia e l’accoglienza verso gli altri o questo porta con sé necessariamente autocrazie locali ostili al prossimo loro?
  5. Il potere locale aiuta a “dirigersi verso le periferie, non solo quelle geografiche ma anche quelle esistenziali” come papa Francesco esorta a fare?
  6. Dobbiamo rassegnarci alla “brutalità e complessità nell’economia globale[10] e rinunciare alla speranza o abbiamo il dovere di proporre una visione democratica, aperta, compassionevole e solidale del diritto alla identità locale, che diventi valore universale, su cui costruire il reale riconoscimento della dignità di ogni essere umano?
  7. C’è modo di contrastare la devastante tendenza verso la concentrazione urbana e le sue terribili conseguenze sugli equilibri ecologici e politici del mondo, garantendo a chi vive nelle periferie l’accesso ai diritti?
  8. Come possiamo dare il nostro contributo per cambiare il paradigma post moderno della crescita economica come unico e autoritario modo di vedere il futuro degli uomini migliorare? Si potrà vivere bene anche con meno distribuendo meglio quello che abbiamo rispettando i limiti imposti dal nostro pianeta?

Un vasto programma per dirla con De Gaulle. Ma nelle nostre intenzioni non ci sono pretese ideologiche, non abbiamo necessità di vetrine nelle quali mostrarci pensandoci migliori degli altri, non ci servono risultati da esibire come trofei. Allo stesso modo non abbiamo soluzioni da proporre né pensiamo che le avremo dopo questo atipico giro d’Italia. Quello che desideriamo, io e Michele per primi, consapevoli dei nostri limiti, è ricominciare a parlarci per ascoltare le vite, le storie e le visioni di molti che oggi si sentono sperduti come viandanti che abbiano perduto la nozione del tempo e del luogo che attraversano. Se siamo viandanti sperduti oppure con una precisa conoscenza della rotta non lo sappiamo. Sappiamo però che un viaggio degno di questo nome lo si fa insieme. Insieme a tutti quelli che si incontrano. 

Per questo chiediamo ad ognuno di Voi di offrirci il contributo della propria esperienza partecipando ad un incontro previsto per il 23 aprile alle ore 17 presso l’ISBREC, (Istituto storico della resistenza e dell’età contemporanea) di Belluno in piazza del Mercato, oppure per realizzare degli incontri da concordare per il giorno 24 aprile 2017.

Invio a tutti i voi i materiali prodotti finora e resto In attesa di vostre adesione o richieste di chiarimenti.

Diego Cason


[1] Francesco Laudato si’, Lettera enciclica sulla cura della casa comune, Libreria editrice vaticana, 2015, punti 157,

[2] Fritjof Capra, Verso una nuova saggezza, Feltrinelli, 1989

[3] Christian de Quincey, Radical Knowing: Understanding Consciousness through Relationship (Radical Consciousness Trilogy) Paperback August 16, 2005

[4] AA.VV. Creatività e crisi della comunità locale. Nuovi paradigmi di sviluppo … Franco Angeli editore. Temi dello sviluppo locale – diretta da E. Minardi, pg. 125

[5] Edgar Morin, I sette saperi necessari all’educazione del futuro, Cortina, 2001, pp. 30-31

[6] G. Durand, Les structures anthropologiques de l’imaginaire, Grenoble 1960 (trad. it. Bari 1972).

[7] Daniel Defoe, Robinson Crusoe, Feltrinelli, Milano, 1993, pg. 166-167

[8] Zygmunt Bauman, la società dell’incertezza, Intersezioni, Il Mulino, Bologna, 1999, pg 27 e seguenti..

[9] Mc Millan W.D. Sense of community: a definition and teory, in Journal of psicology, vol. XIV, n. 1. 

[10] Saskia Sassen Espulsioni. Brutalità e complessità nell’economia globale, Il Mulino, Collezione di testi e di studi, 2015

Appunti per chi si occupa di sviluppo locale

di Franco Mario Bisaccia Arminio

1.

Vivere nel luogo in cui sei nato, nella casa in cui sei nato, è una cosa rischiosa. È come giocare in fondo al pozzo. Si nasce per uscire, per vagare nel mondo. Il paese ti porta alla ripetizione. In paese è facile essere infelici. I progetti di sviluppo locale devono tenere conto di questo fatto: non li possono fare da soli i rimanenti, perché in paese non c’è progetto, c’è ripetizione. È difficile essere innovatori. In genere ognuno fa quello che ha sempre fatto, giusto o sbagliato che sia. Se nella pasta ci vogliono due uova piuttosto che una, comunque tutti continueranno a usarne due. E chi beve non troverà nessun incentivo a smettere. E chi si guasta lo stomaco mangiando troppo continuerà a mangiare troppo. Ci sono due abitanti tipici, il ripetente e lo scoraggiatore militante. Spesso le due figure sono congiunte, nel senso che lo scoraggiatore è per mestiere abitudinario, non cambia passo, continua a scoraggiare, è appunto un militante. Più difficile essere militanti della gratitudine, della letizia. È come se la natura umana in paese fosse più contratta, non riuscisse a diluirsi. E si rimane dentro un utero marcito.

Bisogna arieggiare il paese portando gente nuova, il paese deve essere un continuo impasto di intimità e distanza, di nativi e di residenti provvisori. Questo produce una dinamica emotiva ed anche economica. E la dinamica è sempre contrario allo spopolamento:  bisogna agitare le acque, ci vuole una comunità ruscello e non una comunità pozzanghera.

Bisognava aprire emotivamente i paesi, dilatare la loro anima e invece la modernità incivile degli ultimi decenni li ha aperti solo dal punto di vista urbanistico, si sono sparpagliati nel paesaggio, a imitazione della città, ma è rimasta la contrazione emotiva. Il paese va aperto tenendolo raccolto. Lo sviluppo locale si fa ridando al paese una sua forma, ricomponendolo, rimettendolo nel suo centro, ma nello stesso tempo c’è bisogno di apertura. Lo sviluppo lo può fare chi lo attraversa il paese con affetto, non chi ci vive dentro come se fosse una cisti, un’aderenza, un cancro.

Spesso i paesi più belli sono quelli vuoti, come se fossero uccelli svuotati dello loro viscere. È come se la parte viscerale del paese fosse quella più malata, quella più accanita a tutelare la sua malattia. Un’azione di sviluppo locale allora deve essere delicata ma anche dura, deve togliere al paese i suoi alibi, i suoi equilibri fossilizzati, deve cambiare i ruoli: magari le comparse possono essere scelte come attori principali e gli attori principali devono essere ridotti a comparse. E allora non si fa sviluppo locale senza conflitto. Se non si arrabbia nessuno vuole dire che stiamo facendo calligrafia, vuol dire che stiamo stuccando la realtà, non la stiamo trasformando.

2.

I progetti di sviluppo locale negli ultimi anni non hanno dato grandi risultati, per questo è nata la Strategia Nazionale delle Aree Interne che nei prossimi mesi comincerà ad essere operativa in alcune Aree Pilota. Si cerca di cambiare logica rispetto alle fontane restaurate che sono di nuovo in disuso, alle piazze molte volte ripavimentate, ma mentre si posavano le pietre, gli abitanti di queste piazze posavano la loro vita al cimitero. E i ragazzi cercavano un Nord che non c’è più. Qui parlo di Sud, ma il tema dello spopolamento non è il tema del Sud, è il tema delle montagne. E allora ragionare di montagne vuole dire capire che spazio sono le montagne. Forse più che dello sviluppo, le montagne hanno bisogno della gioia. Nei progetti di sviluppo locale non si parla mai delle gioia. Lo sviluppo ha bisogno di schede, è inteso come un risultato alla fine di un processo. La gioia è intesa come qualcosa di intimo, di ineffabile. Forse è venuto un tempo in cui la gioia deve essere immessa nello spazio sociale come elemento cruciale. Anche salutare un vecchio è un progetto di sviluppo locale. Non ha senso lavorare a progetti in cui tutto si risolve in una dimensione monetaria. Il denaro tende a scendere a valle, non rimane sulle montagne. Lo sviluppo locale deve fecondare passioni. Se ti regalo una mungitrice e tu pensi alle Mercedes più che alla mucca, non ho risolto nulla. Se lavoriamo a un progetto per anni e non ci accorgiamo che un forno sta per chiudere vuol dire che stiamo facendo retorica dello sviluppo, vuole dire descrivere lo sviluppo senza darlo. È come accendere una candela in una grotta molto grande: le candele descrivono la luce, non la danno.

Non si può tollerare che un caffè costa molto di più di un uovo fresco. E un quintale di grano costa meno di un shampo dal parrucchiere. Il fuoco centrale dello sviluppo locale non può che essere la terra. È intollerabile che l’Italia importa un milione di vitelli. Dobbiamo mangiare la nostra carne, mangiarne poca, ma buonissima. I paesi devono produrre cibo di altissima qualità, i paesi vanno concepiti come farmacie: aria buona, buon cibo, silenzio, luce. E poi il soffio del sacro. Dove si è in pochi nessun cuore è acqua piovana. Ma bisogna immettere enzimi dall’esterno. Bisogna portare nelle montagne i pionieri del nuovo umanesimo. Più che mandare i soldi, bisogna trovare il modo di portare nei paesi e nelle montagne le persone giuste. E far rimanere le persone giuste. Allora un progetto di sviluppo locale ragiona di persone, non ragiona di progetti, i progetti vengono dopo. È molto discutibile questa logica che prima si fanno i progetti e poi si vede se c’è qualche persona che li può interpretare. A volte si fanno sceneggiature staccate dalla realtà. Come se nel film si potessero trovare delle scimmie al Polo Nord.

E poi c’è la questione del tempo. Un progetto di sviluppo locale non si elabora e poi si realizza. Bisogna cominciare, magari con un pezzo piccolissimo, e mentre si realizza qualcosa si continua a elaborare il progetto. Mentre immaginiamo come razionalizzare la sanità, intanto ripariamo le buche sulle strade.

Giustamente si dice che ci vogliono i servizi e ci vuole il lavoro, altrimenti la gente va via. Ma il rischio sono sempre le astrazioni. Ci sono servizi inutili e lavori che non servono a niente. Bisogna partire da chi c’è in un certo luogo e da chi potrebbe arrivare. E allora ecco che si ragiona su certi servizi e su certi lavori. Magari in un paese serve un barbiere, non serve un centro di documentazione per lo sviluppo locale.

Olivetti faceva lavorare nella sua fabbrica artisti e scrittori. E la sua fabbrica da un paese era diventata avanguardia mondiale. Forse quando parliamo di sviluppo locale sarebbe opportuno ripassarsi la lezione di Olivetti e la sua idea di comunità. Olivetti puntava sulle persone. L’Italia interna ha bisogno di persone, deve trovare e incoraggiare le persone che contengono avvenire. Capisco che ci vogliono strumenti, bisogna ingegnerizzare bene le questioni per evitare che restino sulla carta, ma non si può tollerare che mentre mettiamo a punto i nostri schemi le persone perdono fiducia, vanno via.

Un passo per volta…verso la comunità “che viene”

di Federico Zappini

E’ interessante riflettere sul perché negli ultimi tempi la figura del camminatore – in politica, ma non solo – sia tornata di moda. Emmanuel Macron, sottraendosi alle primarie socialiste in Francia, ha scelto “En Marche” come nome del suo nuovo progetto. Un’invocazione di (e al) movimento, volutamente in contrapposizione all’immobilismo dei partiti tradizionali, visti come strumenti inutilizzabili e fuori dal tempo. Uno schema che sembra – per il momento e almeno nei sondaggi – funzionare. Sfruttandonela scia come un provetto ciclista Matteo Renzi ha lanciato la sua campagna congressuale nel tentativo di rimuovere il ricordo del suo triennio a Palazzo Chigi, non dinamico come nelle attese. Agendo di traduzione, materiale e spudorata, ecco nascere “In cammino”. Le piazze e le strade d’Europa si preannunciano quindi punteggiate di esploratori politici che sperimentano l’idea – non nuova, certo – che se Maometto non va alla montagna, sarà la montagna a muovere il primo passo. Di fronte alla disarticolazione sociale e politica, per porre un argine allo sfarinamento dei corpi intermedi e rispondere alla crisi dei  processi democratici torna centrale l’esigenza di stabilire un contatto diretto con i cittadini (con quel popolo a cui tutti si riferiscono e che nessuno sembra davvero comprendere) e di riaffermare una presenza capillare sul territorio. Peccato che in pochi sembrino interessati a ricordare e ridare corpo all’esperienza politica sperimentata da Alexander Langer, “Viaggiatore leggere” continuamente a scavalcodei confini europei e delle differenze culturali, capace di sguardo lungo e di traiettorie radicali.

Negli ultimi anni – anche sotto la potente spinta, nel bene e nel male, della tecnologia – il viaggio è tornato a essere elemento utile per interrogare il presente, mettere in evidenza storie esemplari,  incrociare sguardi e sviluppare processi di conoscenza e apprendimento. Con risultati più o meno gradevoli ed efficaci. Attraverso percorsi più o meno onesti dal punto di vista intellettuale. Non si contano i libri e i siti che raccolgono best practises nei campi della sostenibilità e dell’innovazione (il più famoso nel nostro paese è probabilmente “L’Italia che cambia”). C’è chi – come Paolo Rumiz, Enrico Brizzi e Wu Ming – ha recuperato il genere letterario della narrazione di viaggio, meglio se a piedi e con andamento lento, restituendogli dignità e successo. Persino lo scalcagnato, ormai ex, direttore del Sole 24 Ore Roberto Napoletano ha descritto in due libri gli itinerari di ricerca di coloro che, dentro la crisi economica, mettono in campo azione di resistenza imprenditoriale. Avrò certamente dimenticato qualcuno in questa rapida carrellata. Siamo di fronte – è evidente – a un “mercato” particolarmente segmentato e competitivo. Cosa differenzia quindi un viaggio come quello che ci apprestiamo ad iniziare da tutti quelli che l’hanno preceduto e da quelli che certamente lo seguiranno?

Si può partire carichi di certezze – sentendosi profeti piuttosto che viandanti, apolidi della politica – oppure leggeri, e in un certo senso fragili, sicuri solamente del fatto che dentro le trasformazioni epocali che stiamo osservando, a livello globale come locale, vadano cercate e condivise idee e ipotesi politiche capaci di riconoscere, articolare e promuovere cambi di paradigmi e non la difesa e la conservazione dell’esistente. “Non è il tempo della moderazione” scriveva Simone Casalini nei giorni scorsi dalle colonne del Corriere del Trentino, riflettendo attorno alla scivolosa categoria dei populismi e del fallimentare approccio della politica al montare di fenomeni d’insofferenza nei suoi confronti.

Il viaggio di sifr assume le caratteristiche di un’inchiesta collettiva e multiforme sulla modernità, contraddittoria e a tratti disturbante, così come – se vogliamo prendere un altro esempio letterario – l’ha descritta con grande profondità e acutezza Daniele Rielli nel suo “Storie dal mondo nuovo”, con la sola parziale eccezione dell’ultimo capitolo – non originale e curioso come il resto del libro – sul vicino Alto Adige. Allo stesso tempo, parlo in prima persona in questo momento, sifr è anche l’urgenza di lavorare sull’identificazione di uno scenario personale e collettivo che, per uno strano caso del destino, coincide con la lettura dell’ultimo romanzo di Paolo Cognetti “Le otto montagne”, storia che sento molto mia sia perché rappresentativa di una generazione confusa e alla costante ricerca di un’ancoraggio al futuro che per la capacità dell’autore di mettere in relazione le diversità umane (i due protagonisti, le loro esistenze) e ambientali (la città e la montagna) dentro un percorso accidentato e per nulla scontato di continue verifiche del passo successivo da compiere. E ancora – ultimo, ma non in ordine di importanza – sifr è il tentativo di spiegare che dentro la lunghissima transizione tra il “non più” e il “non ancora” – di cui ancora non vediamo la fine, anche e soprattutto per colpa nostra – quella da cercare non è la comunità “che fu” ma quella “che viene”. Una comunità che, nell’epoca dell’accelerazione come mantra, ragiona sulla necessità di darsi il tempo e di trovare il modo di stare insieme, restituendo valore all’incontro e alle relazioni. Una comunità che la politica, chi altrimenti, è chiamata ad accompagnare dentro le importanti sfide di questi “tempi interessanti”.

Ecco allora che questo cammino è guidato dalla curiosità e dalla voglia di lasciarsi stupire piuttosto che dal battere percorsi sicuri e avvicinarsi a mete conosciute. Non si accontenta di confermare un’idea di partenza ma si nutre di confronti sinceri e persino conflittuali. Non da (quasi) nulla per scontato, semplicemente perché non può permettersi di farlo, e pretende di mettere sotto stress ogni tema che incontrerà lungo la strada.

Alla ricerca delle lucciole

«Il viaggio a me sembra la forma d’intimità per eccellenza, forse perché consente il dialogo ma accoglie anche il silenzio: rispetta le solitudini, lascia spazio al discorso interiore e alla contemplazione. Il paesaggio che scorre cattura lo sguardo, è un pensiero condiviso. Così l’andare insieme assomiglia molto al vivere insieme: c’è un rapporto di coppia, un percorso più o meno accidentato, il tempo necessario ad arrivare in fondo»

Paolo Cognetti, “A pesca nelle pozze più profonde” (Minimum fax)

di Federico Zappini

(17 febbraio 2017) Se non fosse già stata usata in mille altre occasione si potrebbe far riferimento alla metafora biblica della traversata del deserto. Bene si adatterebbe alla solitudine da cui abbiamo deciso di partire, se non fosse che il contesto politico dentro il quale ci muoviamo non è caratterizzato solo da un’interminabile serie di vuoti (linguistici, valoriali, organizzativi) ma anche e soprattutto da un livello di saturazione (“l’abbagliante luce prodotta dalla modernità”, così come la descrive Huberman [1]) che opprime e che disorienta. Lo spazio della riflessione, dell’approfondimento, dell’analisi e del confronto – alla base di qualunque sistema politico e sociale che pretenda di funzionare – è oggi quanto di meno praticabile e accogliente si possa immaginare. Saturo appunto, in un mix letale di conformismo e indifferenza.

Ne scrive benissimo Ugo Morelli: «Noi tutti siamo saturi di informazioni che non riescono a farci avere un’idea di un problema o di un fenomeno e, confusi, ci dimeniamo nelle selve del presente. Si dimena pure il linguaggio della politica che, forse, è uno dei luoghi della massima saturazione. Lo svuotamento di significati del gergo pare una parabola inarrestabile e ogni tentativo di proporre una controtendenza è riassorbito e sepolto nella palude del già visto o del non senso». Eppure le forme della politicizzazione – come si tenta a volte, con eccesso di semplificazione, di argomentare – non sono venute meno, anzi. Solo assumono forme, nel bene e nel male, molto diverse da quelle che sappiamo riconoscere, che riteniamo legittime di essere prese in considerazione. La maggior parte di esse, almeno tra quelle che assumono maggiore evidenza mediatica, non riescono ad assumere funzione generativa e si accontentano (o addirittura rivendicano) la propria azione di freno, di rinserramento, di conservazione.

E’ dentro questo scenario che bisogna lavorare, almeno per cominciare, nei termini della ricerca, della curiosa osservazione. Vanno individuate le lucciole – sempre citando le preziose riflessioni di Huberman – che vedono dissipare la propria delicata luminosità nell’accecante bagliore dentro il quale sono costrette a muoversi. Non vanno riunite ma riconnesse, fatte riconoscere vicendevolmente. Non nell’ipotesi di costruire in vitro soggetti politici o di raccogliere – ancora? – firme in calce a nuovi Manifesti. Non con l’obiettivo di ridurne le differenze e unicità a forzate quanto instabili identità. Non con la spocchia di possedere in partenza risposte ma con l’urgenza di condividere domande all’altezza dei “tempi interessanti” che stiamo attraversando, intesi nella forma ambivalente di benedizione/maledizione che deriva dalla tradizione cinese.

Se queste non fossero le premesse fondative di questo viaggio che fa della solitudine un motivo di necessaria attivazione, quella che stiamo vedendo dispiegarsi scompostamente attorno a noi potrebbe addirittura apparirci come una fase di rinnovamento della geografia politica. Ma la moltiplicazione di partiti, partitini e movimenti unita alla frenesia che attanaglia la scalcagnata classe politica italiana (perché sempre di manovre tutte interne agli addetti ai lavori si tratta) rischia di essere il tossico rimasuglio di un inverno lungo e rigido dal quale fatichiamo ad uscire.

La cosa che sembra sfuggire ai più è che il problema non sta nel contenitore, quasi si confondesse un partito con un circolo tennis o un centro commerciale che deve incrociare, in termini di marketing politico, i desideri e i gusti di “pezzi di società” alla ricerca di un nuovo prodotto da acquistare e nel quale riconoscersi. Ognuno degli esperimenti – frutto di scissioni imminenti, di fusioni frettolose, di pruriti identitari – che in queste settimane animano la cronaca e i retroscena giornalistici assomigliano a esercizi di stile (spesso del tutto autoreferenziali) piuttosto che processi di riaffermazione del ruolo della politica. Una dicotomia decisiva, letale, apparentemente insanabili.

Il viaggio che abbiamo in mente non é quello che altri condurranno esponendo le proprie tesi congressuali. Preferiamo il dubbio alle certezze e non ci spaventa la categoria del tradimento. Non sarà nemmeno il filo rosso che tiene insieme la geografia della paura e del rancore (che ha già numerosi interpreti) o quella delle emergenze e degli interessi particolare (anche questa sufficientemente rappresentata). A questi schemi preferiamo i tempi lunghi, magari non del tutto a ritmo con la frenesia dell’attualità, e la complessità.

E’ un percorso che non si dà un termine preciso e questa indeterminatezza – apparentemente sconveniente, addirittura pericolosa in un tempo nel quale sembra obbligatorio annunciare in partenza il proprio posizionamento e la propria traiettoria, i propri riferimenti e i propri nemici – è per il momento una garanzia di libertà, autonomia, non dipendenza. La radicalità sarà una delle chiavi di lettura necessarie, non in quanto mera enunciazione di propositi ma come sperimentazione di alterità all’esistente, inteso come conservazione di una serie di paradigmi che oggi contribuiscono a definire il concetto di stabilità e di non alternativa possibile.

Non è un caso che nel primo “sopralluogo” per immaginare un itinerario capace di coinvolgere il nord-ovest italiano ci sia capitato di passare la mattina a discutere di terre alte e aree interne, di trasformazione dei modelli produttivi, di nuovi paradigmi dello sviluppo nella casa e tra gli scaffali che ospitano l’archivio di Piero Gobetti e di bere un caffè in uno spazio di co-working a poche centinaia di metri di distanza parlando di progetti di riqualificazione urbana a base culturale e di ecosistemi innovativi nel meridione, tra Europa e Mediterraneo. Non contenti abbiamo concluso la nostra esplorazione piemontese spingendoci fino a Ivrea, lì dove Adriano Olivetti sperimentò un modello di relazione tra fabbrica e comunità, tra tecnologia e cultura, tra imprenditoria e inclusione sociale. Un’ipotesi che mantiene ancora oggi – nonostante la malinconica condizione di generale dimenticanza del lascito olivettiano – tratti di incredibile modernità.

Sifr (zero, nella lingua araba) è questo. Il tentativo di trovare compagni di viaggio curiosi e disponibili a mettersi in gioco. La speranza di riuscire a introdurre nella stanca condizione della politica uno o più elementi – così come avvenne con la comparsa del numero 0 – capaci di sparigliare le carte e di offrire lo spunto per una nuova prassi della politica, a ogni livello. Pronti, attenti, via.

Fra il “non più” e il “non ancora”

 

Quello che viviamo è un tempo lacerato fra il “non più” e il “non ancora”.

Una storia si è chiusa, ma incombe come passato che non passa, nei suoi passaggi non elaborati come nelle sue categorie di pensiero che fatichiamo a scrollarci d dosso. Ed un tempo nuovo, nel senso di inedito, stenta a prendere corpo in una transizione tanto lunga quanto opaca, segnata dai tratti più inquietanti dell’ideologia uscita vincente (almeno apparentemente) dalla sfida novecentesca.

In questo interregno che Hannah Arendt descrisse mirabilmente come «un tempo completamente determinato dalle cose che non sono più e da quelle che non sono ancora»1 abbiamo cercato nuove strade. Non solo nuovi contenitori a fronte dell’eclissi dei corpi intermedi, ma di nuove sintesi politico-culturali in grado di far tesoro del passato, descrivere il presente e immaginare il futuro.

Ma se la rottamazione dei vecchi partiti è stata facilitata dalla loro crisi non altrettanto si può dire sulla capacità di quel cambio di paradigma che la fine del Novecento richiederebbe, come ad attualizzare l’espressione cara a René Char quando scriveva che «la nostra eredità non è preceduta da alcun testamento».

Illudendosi dapprima che il problema fosse l’incoerenza fra il pensiero e l’azione (l’insopportabile categoria del tradimento), successivamente avvinghiandosi ad uno stile di vita insostenibile senza comprendere che quel che si afferma come non negoziabile altro non è che una condizione di privilegio cui corrisponde l’esclusione di una parte dell’umanità.

Quest’assenza di testamento richiede la radicalità di un nuovo inizio. Non si parte mai da zero, ma ci sono dei passaggi di tempo in cui lo scarto di pensiero deve essere profondo, come avvenne con l’introduzione dello sifr – lo zero arabo – nella matematica. Uno sguardo nuovo, come esito di un percorso collettivo nel quale l’osservazione sul presente avvenga con lo strabismo (e dunque con la profondità) che si addice ad un tempo globale e interdipendente, e di una ricerca culturale e politica disposta al sincretismo e alla meraviglia.

 

1Hannah Arendt, Tra passato e futuro. Garzanti, 1999