Il mercato globale, i territori e la voglia di autonomia
Il mercato globale, i territori e la voglia di autonomia
di Aldo Bonomi *
«Omaggio alla Catalogna» scriveva George Orwell. Dovrei essere contento, ancorato come sono al territorio con il racconto e le riflessioni ed il continuo ricordare agli attori economici e politici-istituzionali, in tempi di reti hard e soft, di volgere lo sguardo verso il basso, non solo a guardare ai flussi ma al loro impatto ed effetto nei luoghi, nelle città, nel contado, nelle smart land della provincia e nelle regioni. Eppure c’è sempre qualcosa che mi fa preoccupato, che mi rimanda alla crisi delle forme di convivenza, quando il territorio vola nel cielo della politica saldandosi al nodo dell’identità. Convinto come sono che l’identità, anche se densa di storia, come nel caso della Catalogna, va ricercata più nella relazione che nel rinserramento.
Mi si dirà, ma quale relazione quando ti mandano gli uomini neri a sfondare seggi elettorali e bastonare chi vuol votare? Tragico segno (voluto?) di cinica ignoranza della storia e delle sue passioni, come abbiamo visto a Barcellona e nei comuni del territorio. È un deja vu che spero si fermi quando la politica perde il senso del tragico, come ebbe a dire il presidente Delors a proposito della ex Yugoslavia, riferendosi a un’Europa muta e imbelle, incapace di mettersi in mezzo, allora e oggi. Mi lascia molto preoccupato il sapere che spesso le tensioni, i conflitti territoriali, né l’economia né la politica sono in grado di risolvere avendo perso entrambe la mediazione tra interessi e senso, tra interessi e bisogni, tra interessi e passioni, che sono, a ben vedere, motori delle rivendicazioni dei territori e alla base dei desideri di autonomia, di indipendenza, di secessione. Il tutto complicato da quando la globalizzazione, da speranza inclusiva soft, si è fatta hard e selettiva, la chiamiamo crisi. Ha impattato sul fare impresa, sulle forme dei lavori, sulla coesione e sulla composizione sociale dei territori. Prescindendo spesso dal capire ed accompagnare il farsi e l’evoluzione delle società locali, con le loro storie e l’identità in metamorfosi.
L’economia dei flussi, finanza, transnazionali, internet company e capitalismo delle reti, è selettiva. Ridisegna territori, città, ceti sociali affluenti e discendenti, quelli agganciati ai flussi e quelli che si ritrovano al margine. Non è solo questione territoriale, ma anche di sorprese politiche (vedesi il confronto Trump Clinton) con tanto di periferie che circondano le città affluenti, o le recenti elezioni in Germania tra Est ed Ovest. Non è bastato allora il corridoio balcanico, il progetto della grande autostrada e rete ferroviaria da Atene a Berlino, a tenere assieme la ex Yugoslavia. Capitalismo delle reti oggi ridisegnato nella via della seta dalla Cina che si è comprata il porto del Pireo. Né, ai tempi della globalizzazione soft, il fare della Catalogna una delle quattro regioni motori di Europa (con l’Ile de France, il Baden Wurttmberg e la Lombardia) ad includere ed attenuare il rischio di secessione per andare da soli in Europa. L’economia dei flussi induce non solo il produrre per competere nel mercato globale, ma è il tarlo per cui ogni Nord cerca un suo Sud, avendo come mappa più che le forme di convivenza le classifiche di città, territori e regioni. Più che un’economia sociale di mercato spesso si toglie il “sociale” e in mezzo si mette lo spread che disegna l’Europa del burro e l’Europa dell’olio.
Non è un caso se in questi giorni i commenti si sono orientati subito a dirci che rispetto al burro tedesco l’olio italiano si avvicina a quello spagnolo che, nella crisi, sembrava averci superato. Questo risiko selettivo poco si interroga sul quando il Sud cerca il suo Nord attraversando il Mediterraneo, dove appare l’Europa dell’indifferenza, dei muri, delle quote per accogliere, sottoscritte e negate. O il peggio, quando, fecendosi ideologia in nome della religione, si assiste al farsi di una comunità maledetta di sangue, suolo e religione che abbiamo già visto nella ex Yugoslavia e drammaticamente in azione terroristica sulle Ramblas di Barcellona. Città emblematica, nelle contraddizioni dell’ipermodernità. Con i fermenti indipendentisti di oggi, il terrorismo fondamentalista nelle Ramblas, e la manifestazione promossa dalla sindaca di Barcellona per una Barcellona città aperta e accogliente rispetto ai migranti. Ce ne siamo già scordati nell’eventologia frenetica, che tutto rende presente, di quel segnale debole, di quella manifestazione multietnica, basata sull’identità di relazione con l’altro. Segnale debole di fronte al forte richiamo dell’identità di territorio e alla voglia di indipendenza, non a caso nel referendum ha avuto poco spazio l’indicazione di Ada Colau di andare a votare, magari anche scheda bianca, come il segnale di un’identità aperta alla relazione verso il Mediterraneo e lo stato centrale.
Barcellona come macrocosmo su cui riflettere nella geoeconomia che avanza, sperando in una geopolitica europea, mai come oggi necessaria, in grado di mettersi in mezzo tra stati, regioni e territori. Il che fa apparire come un microcosmo il nostro Lombardo-Veneto con i suoi referendum sull’autonomia convocati per il 22 ottobre. Ci sarebbe molto da dire sia in termini di federalismo, di Titolo V, di storia politica della Lega di Bossi con il suo sindacalismo di territorio sino al sovranismo nazionale di Salvini con il suo sindacalismo delle paure… Ma restiamo al referendum temperato per l’autonomia convocato dai governatori della Lombardia e del Veneto. Andrò a votare, confortato sia dell’esercizio del voto come valore, che dal parere di un costituzionalista come Valerio Onida, che vede nel principio di autonomia un abbassare la soglia delle decisioni al territorio, agli enti locali e alle sue autonomie funzionali. Insomma una forma necessaria per rafforzare uno spazio di posizione in grado di mettersi in mezzo tra i flussi e i luoghi e la capacità, a proposito di economia, come ha sostenuto Giacomo Becattini, di alimentare la coscienza dei luoghi rendendoli in grado di “addomesticare le transnazionali” e di strutturare dinamiche e percorsi di globalizzazione dal basso. Speriamo.
* editoriale apparso sul Sole24Ore domenica 8 ottobre 2017