Eclissi della classe media, pochi i salvati tanti i sommersi
di Aldo Bonomi
E’ interrogante l’ultimo libro di Marco Revelli. Mi domando se non ci resti che sussurrare, o urlare “non ti riconosco più” e ritirarci in buon ordine nel racconto di microcosmi e di territori resilienti, magari facendo rete con Magnaghi e la sua rete dei territorialisti. Oppure se valga la pena di alzare lo sguardo e continuare a cercare per continuare a capire oltre l’invito di Candido “Dobbiamo coltivare il nostro orto”, evocato in un altro scritto di Marco sul Manifesto. O ancora se valga la pena continuare nella fatica di Sisifo dello scomporre e ricomporre il farsi della società nel salto d’epoca dell’accelerazione, con lo sguardo delle lunghe derive braudeliane del potere, del mercato e della civiltà materiale. Sono tempi di sorvolatori del mondo, di storytelling, di flussi che impattano nei luoghi mutandoli antropologicamente, culturalmente, socialmente ed economicamente. Partirei, come sempre, dal basso, dal processo di deposito delle polveri sottili dei flussi nei polmoni delle “vite minuscole”, della vita quotidiana, nel loro, un po’ come per noi, non riconoscersi più in ciò che era abituale. Può sembrare retrò, ma credo che la parola chiave di tanti comportamenti collettivi sia “sommerso”. Che diventa, nella discontinuità di inizio secolo, sommerso carsico e non più sommerso ascendente. Questo sommerso carsico ha poco a che fare con il “ben scavato vecchia talpa” di marxiana memoria. Riappare il tema del rendersi invisibili ai poteri, alle tasse, ai mercati, così confluendo, come detriti, nel fiume dei tanti precipitati nel sommerso della povertà, della società dello scarto e dei dannati della terra, il cui fiume è diventato il cimitero/Mediterraneo. Scomporre e ricomporre i detriti di questo fiume mi pare questione sociale e politica, avendo chiaro che pochi sono i salvati e tanti i sommersi. In questo magma carsico si evidenzia un’altra questione: lo sfarinamento della società di mezzo, intesa sia come crisi del tessuto prepolitico della rappresentanza sociale e lo sfarinamento dei ceti medi cui si aggiunge oggi la forma partito. Il sommerso ascendente dei tardi anni ’60 sembra, nel piccolo, un’epopea da far west: contadini che, nella migrazione interna, si fanno operaio massa, operai specializzati che emergono dai sottoscala costruendo capannoni e disegnando con i sindaci aree industriali che si fanno distretto; cooperative di consumo e di lavoro che diventano grandi gruppi della distribuzione o della produzione. La piccola borghesia si fa ceto medio, come ebbe a rilevare Paolo Sylos Labini nella sua analisi. Questa voglia collettiva di rendersi ed essere visibili nel fare società e nel fare economia non c’è più. Per molti l’ascesa e la visibilità non hanno significato inclusione nel passaggio d’epoca della globalizzazione selettiva. Migliaia di imprese hanno chiuso, milioni di posti di lavoro sono andati distrutti, molti sono tornati nei sottoscala e nell’economia informale. E’ una spaccatura che attraversa anche il sindacato, che firma accordi di welfare aziendale con le medie imprese globalizzate e di formazione al lavoro “ibrido” fatto di manualità, informatica e robotica, mentre in basso si ritrova a svuotare con il cucchiaio il mare dei voucher. E che dire e che fare di fronte alla proposta di Bill Gates di tassare i robot? E del mondo della cooperazione, ipervisibile in alto con la grande distribuzione e i grandi gruppi assicurativi e in basso con le false cooperative dei lavori ai margini della logistica o, peggio ancora, speculando sui profughi richiedenti asilo? E’ così che si è scomposto l’operaio massa e il volontario come sostituto del militante, di cui scrivevamo su Communitas. Si è rotto il contratto non scritto che rendeva visibili le vite minuscole della piccola borghesia. Pochi sono andati verso l’alto, a fare i manager, gli altri sono andati in basso pieni di incertezze per il destino dei figli a rischio neet. Le azioni delle banche e i Bot non sono più un rifugio, alcune banche sono fallite con le loro assemblee di popolo. La borsa poi… Ci si “aerbirizza” quelli a cui è rimasta la casa, facendosi affittuari per studenti e turisti, ci si “uberizza” in lavoratori autonomi di terza generazione fatti di lavoretti vari offerti dai padroni degli algoritmi, magari in conflitto con il lavoro autonomo di prima generazione. Oppure ci si ritrova a lavorare per start up che organizzano il lavoro domestico a domicilio o la consegna di cibi pronti. Ragionammo anni fa dei forconi, che si prendevano il centro delle città. Si trattava di un “popolino” di ambulanti commercianti e artigiani ormai working poors, provenivano dal contado e non dalle fabbriche, segno di un territorio desertificato. Un deserto che sotto il sole dei flussi surriscalda un magma sociale difficile da toccare e trattare con le categorie del ‘900 senza scottarsi. A seconda del punto di eruzione è fatto di taxisti in deficit corporativo, da ambulanti che reclamano spazi, di espulsi dai robot, sino ai nuovi lavoratori servili nell’economia dei servizi e del capitalismo delle reti. Ne deduco che lo scomporre e ricomporre questo magma sia questione politica quanto il tema nodale delle povertà. Così come mi pare urgente capire che cosa ne sia del lavoro e dei lavori nell’industria 4.0, del lavoro autonomo di prima generazione che si fa maker, di quello di seconda generazione che si fa partita IVA terziaria e di quello di terza generazione uberizzato e messo al lavoro nella dittatura dell’algoritmo. I pifferai della ruota della fortuna raccontano spesso delle start up che si quotano o sono acquistate dai padroni della rete, o di makers che rivitalizzano la fabbrica diffusa. In quella che il grande Bauman definiva la lotta di classe per l’apparire. A noi tocca ragionare della ruota del criceto che mostra, in una stasi accelerata, tanti smanettoni al lavoro invisibili e sommersi, o precari a partita IVA a basso reddito, quando va bene. Anche la composizione dei migranti è cambiata. Oggi li definiamo profughi. Ed anche per loro, per gli scampati al Mediterraneo, è questione il rimanere sommersi ed invisibili, nella speranza di andare verso un altrove, di andare oltre un muro, per non essere rimpatriati (se di patria si può parlare). Il grande esodo nasce da guerre, da mutamenti ambientali che producono i dannati della terra. A fronte di questo salto d’epoca la paura ed il rancore si sono fatti razzismo nell’Europa dell’indifferenza che non coglie la sfida delle migrazioni come questione politica che interroga un modello di sviluppo che produce fame, guerra e desertificazione. Verrebbe da dire “non voglio essere complice di questa economia e di questa politica”. Visto che non trovo un altrove, mi ritiro a coltivare il mio orticello. Ma proprio l’alzare lo sguardo nel riconoscere e riconoscersi nella sociologia delle macerie induce l’urgenza di un lavoro sociale di lunga lena, prepolitico, di ricostruzione, che vada oltre il nostro circoscritto coltivare l’orto volteriano.