Dalla Catalunya al Trentino. Indipendenza e autonomia. Federalismo europeo. Sovranità da condividere e un pugno che deve farsi carezza.
Abbiamo deciso di intraprendere un viaggio dentro la crisi politica catalana dopo esserci chiesti – a metà dicembre scorso – quale potesse essere il ruolo dell’Autonomia nella delicata fase che sta vivendo l’Europa. Siamo arrivati a Barcellona mentre sei indipendentisti catalani entravano in carcere o erano costretti all’esilio. Sulla via del ritorno abbiamo appreso che Carles Puigdemont era in stato di arresto e si andavano formando le prime manifestazioni di solidarietà e protesta nelle piazze catalane.
Questo il contesto nel quale ci siamo mossi, tra incontri con partiti politici e conversazioni con soggetti sociali e culturali. Un contesto che, visto lo spropositato utilizzo della carcerazione preventiva da parte dello Stato spagnolo, rischia di veder chiudersi ogni possibilità di dialogo politico, favorendo una maggiore polarizzazione delle posizioni in campo e attivando una crescente radicalizzazione dei metodi di lotta da un lato e di tentativo di reprimerli dall’altro.
Ci siamo trovati di fronte a un corto circuito nel quale nessuno dei protagonisti è privo di responsabilità e di contraddizioni da sciogliere.
In difficoltà sono gli indipendentisti che rischiano di passare dal sogno dell’indipendenza al sentir mancare sotto i piedi – soprattutto dopo l’utilizzo dell’art.155 da parte del Governo di Madrid – anche la sicurezza di continuare a gestire autonomamente fette rilevanti di governo territoriale. L’ipotesi catalanista, intesa come movimento che mette al centro il riconoscimento della nazione catalana – così come inserito nello Statuto del 2006 bocciato dalla Corte Costituzionale spagnola quattro anni dopo -, non è più così trasversale all’interno della popolazione e rischia di fratturarla in profondità, per generazioni.
In difficoltà è il governo di Madrid, alle prese con la transizione post-franchista che sembra non concludersi mai. Dal punto di vista economico la situazione è di stallo, con criticità sociali – la questione abitativa, l’alta disoccupazione, ecc. – che non trovano soluzioni. Dal punto di vista istituzionale invece il problema sta nella non chiarezza del rapporto tra il governo centrale e le “regioni e nazioni” autonome, le entità territoriali che la Costituzione prevede nominalmente senza definirne però concretamente le forme e le competenze. Dentro questa indeterminatezza si muove l’altalenante storia delle autonomie locali, a seconda del sentimento dominante nelle forze di Governo, e crescono le spinte indipendentiste.
In difficoltà è l’Europa, per motivi diversi e complementari. Da un lato perché non è capace di intervenire di fronte alla violazione delle libertà individuali e politiche da parte del Governo Rajoy, fallendo nel tentativo di rimettere al centro i linguaggi della politica e della mediazione. Dall’altro – e rappresenta una pericolosa ipoteca sulla sua stessa sopravvivenza come entità politica sovranazionale – perché non sa ascoltare le diversità che la compongono per immaginarsi essa stessa diversa e migliore, sia per quanto riguarda l’infrastruttura democratica che si è data (oggi fragilissima e ancora troppo ancorata al funzionamento intergovernativo) che per la sua prospettiva politica, da orientarsi con maggiore convinzione in ottica federalista e sociale.
Sono proprio questi due i temi – modello federalista e centralità del sociale – che ritornano nei vari incontri e rappresentano le premesse di una terza via possibile, purtroppo minoritaria e inascoltata. Un’opzione che sta tra l’incudine e il martello di due nazionalismi che si fronteggiano e che intende la sovranità come terreno del confronto tra differenze. Spazio per un’idea di governo non proprietario che va ceduto e condiviso, piuttosto che rivendicato o imposto. Un pensiero complesso che sfugge alla forza centripeta del valore simbolico delle identità e delle lingue, delle tradizioni e delle bandiere, dei territori e dei confini, interrogandosi sugli elementi costituenti di nuove comunità di destino. Le migrazioni e le nuove generazioni di cittadini che esse determinano, il governo collettivo dei beni comuni, il municipalismo, l’inclusione sociale come fattore di solidarietà e sicurezza. Comunità di destino tra loro non divise ma in costante comunicazione, non omogenee ma ibride, non tenute insieme dalla storia di un passato comune – spesso più romanzato che reale – ma dall’ambizione di un futuro da vivere insieme.
La questione di fondo – su scala europea, perchè a quel campo parlavano gli interlocutori del nostro itinerario – è quella di capire come valorizzare autonomie e particolarità territoriali e di come articolarle dentro modelli di governance capaci di farsi carico oltre che del buon governo della prossimità anche la rotta di navigazione nel mare aperto della globalizzazione. Una condizione d’incertezza a livello planetario che amplifica con sempre maggior potenza lo scontro fra società chiusa e aperta, tra rinserramento sovranista e visione cosmopolita.
Fratture che lasciano cicatrici profonde nel corpo sociale che quotidianamente deve convivere nella stessa città, nello stesso quartiere, nello stesso condominio. Testimonianza ne è – forse di scarso valore statistico ma di forte impatto simbolico – la comparsa ai balconi tanto di bandiere catalane che spagnole, pur in numero inferiore. Uno scontro cromatico e politico nuovo, di cui tener conto.
Alexis Rodriguéz-Rata – storico del federalismo e giornalista per La Vanguardia – ci ha spiegato che il problema è che le posizioni indipendentista e statalista sono come due mani chiuse a pugno. Serve che quei due pugni si sciolgano e tornino ad essere mani operose capaci di carezze e di cura reciproca, di dialogo generativo, di mediazione utile a tutti. Un’impresa visto il clima di queste settimane, dove chiunque tenti di rompere uno dei fronti identitari – prima fra tutti la Sindaca di Barcellona Ada Colau – corre il rischio di essere accusata di tradimento dalla propria parte di riferimento.
Serve quindi tradire per ripensarsi e per saper interpretare lo spirito del tempo senza farsi spaventare da esso. E la Catalunya parla anche al Trentino, pur con sfumature diverse e fortunatamente meno conflittuali.
Perchè il Trentino (e con esso l’Alto Adige) aveva l’occasione – non colta dentro il percorso di scrittura del proprio Terzo Statuto – di aprire una nuova fase della storia autonomista, con gli occhi e la testa rivolti al sogno di un’Europa davvero federalista e non più alla contrattazione con lo Stato nazionale. E ancora, perchè nella fase che conduce alle prossime elezioni provinciali (e non solo) c’è lo spazio – tutto da definire – e la necessità – sempre più evidente – di impostare un nuovo ragionamento territorialista che non ceda, omologandosi all’andamento di gran parte dell’Occidente, alle sirene sovraniste e ai richiami identitari, e apra il campo alla costruzione collettiva di un percorso sociale, culturale e di conseguenza politico capace di farsi carico della sfida di tenere insieme locale e globale, preferendo un approccio cooperativo e solidale a uno escludente e competitivo.
Chi ci proverà – io sarò tra questi, per quanto mi sarà possibile – abiterà un terreno sicuramente scomodo ma obbligato. Serviranno compagni di viaggio consapevoli ed eretici, più curiosi di conoscere la comunità che verrà che nostalgici rispetto alla comunità che è stata e non è più.