Egregi
Signori e Signore, cari amici e amiche,
ho
ricevuto da Michele Nardelli la seguente sollecitazione.
Quando
l’ho letto ho aderito senza esitazione e ho deciso di aiutarlo ad organizzare
la seconda tappa del suo viaggio in provincia di Belluno. Per iniziare immagino
sia utile che conosciate Michele. Prima di tutto è uno dei fondatori
dell’Osservatorio Balcani Caucaso transeuropa, OBC Transeuropa,
Troverete
tutto quello che serve per farvi la vostra idea. Io lo conosco da alcuni anni e
sento che ci unisce la capacità di osservare il mondo nel quale c’è data la
grazia e l’avventura di vivere. Ma non ci accontentiamo di starci. Avvertiamo
il dovere e il privilegio di agire, nei limiti delle nostre competenze, per
renderlo un posto migliore. Senza pretese, sapendo che il meglio è quasi sempre
un nemico del bene. Condividiamo questo desiderio con molti che conosciamo e
con moltissimi che non conosceremo mai che sanno, come dice Papa Francesco
nella sua Enciclica “Laudato si’: “Il
bene comune esige il rispetto della persona umana in quanto tale, con diritti
fondamentali e inalienabili ordinati al suo sviluppo integrale. Basta osservare
la realtà per comprendere che oggi questa opzione è una esigenza etica
fondamentale per l’effettiva realizzazione del bene comune.
Le considerazioni dell’Enciclica non si
rivolgono solo ai fedeli cattolici, chiamano ognuno ad una riflessione
ineludibile:
“Molte cose devono riorientare la propria
rotta, ma prima di tutto è l’umanità che ha bisogno di cambiare. Manca la
coscienza di un’origine comune, di una mutua appartenenza e di un futuro
condiviso da tutti. Questa consapevolezza di base permetterebbe lo sviluppo di
nuove convinzioni, nuovi atteggiamenti e stili di vita. Emerge così una grande
esigenza culturale, spirituale e educativa che implicherà lunghi processi di
rigenerazione.”
L’essere
umano: “accetta gli oggetti ordinari e le
forme consuete della vita così come gli sono imposte dai piani razionali e
dalle macchine normalizzate e, nel complesso, lo fa con l’impressione che tutto
questo sia ragionevole e giusto. Tale
paradigma fa credere a tutti che sono liberi perché conservano una pretesa
libertà di consumare, quando in realtà coloro che possiedono la libertà sono
quelli che fanno parte della minoranza che detiene il potere economico e
finanziario. In questa confusione, l’umanità postmoderna non ha trovato una
nuova comprensione di sé stessa che possa orientarla, e questa mancanza di identità
si vive con angoscia. Abbiamo troppi mezzi per scarsi e rachitici fini.”[1]
Ci serve un cambio di paradigma, secondo la
definizione di Fritjof Capra: “A paradigm
is a constellation of concepts, values, perceptions and practices shared by a
community, which forms a particular vision of reality.”[2] Integrata da quella proposta da Christian de Quincey: ‘[A paradigm] is like a superstructure of ideas, a
scaffolding upon which we hand our understanding, our ‘knowledge’ of reality.”[3]
Per comprenderne il significato, non c’è di meglio di
George Bernard Shaw: “The reasonable man
adapts himself to the world. The unreasonable man persists in trying to adapt
the world to himself. Therefore, all
progress depends on the unreasonable man.”
Sia
pure molto lentamente gli economisti stanno abbandonando il feticcio del Pil ed
immaginano nuovo modo per esercitare la contabilità sociale. Un sistema che
permetta ad un paese, ad ogni comunità, di costruire di scegliere
democraticamente una combinazione, necessariamente differente, degli obiettivi
riguardanti l’auspicabile stato della ricchezza, la diseguaglianza, la
protezione sociale, la sicurezza la salute, l’educazione, la qualità
dell’ambiente. In una parola poter definire liberamente il proprio benessere.[4]
Occorre
liberarsi di vecchi modi di pensare e affrontare i problemi in maniera nuova,
giocare con le idee perché le persone austere, senza creatività, non sono quasi
mai in grado di avere buone intuizioni, ovvero utilizzare buone idee altrui;
essi non vanno oltre alle parole scarsità, necessità e regione. In questo modo
si ha una visione del mondo legata alla sola presenza delle cose e ai vincoli
che esse impongono all’umanità. In nome della scarsità dei beni, si giustifica,
però, che pochi si approprino di molto e moltissimi non abbiano il minimo
indispensabile. Ma è necessario guardare l’altro lato della questione, ovvero
al modo in cui nascono i desideri, poiché da essi dipendono i bisogni. Non sono
le risorse limitate che impongono la diseguaglianza, bensì l’illimitata crescita
dei desideri che rende insufficienti le risorse del pianeta che ci ospita.
Già
lo intuì Giacomo Leopardi nella prima delle sue operette morali, Storia del
genere umano: “appartiene alla propria
natura degli uomini, che non può loro bastare, come agli altri animali, vivere
ed essere liberi da ogni dolore e molestie del corpo; anzi, che bramando sempre
in qualunque stato l’impossibile, tanto più si travagliano con questo desiderio
da sé medesimi, quantomeno sono afflitti dagli altri mali…”
Per
dirlo con Morin: “L’inatteso ci
sorprende. Il fatto è che ci siamo installati con troppo grande sicurezza
nelle nostre teorie e nelle nostre idee, e che queste non hanno nessuna
struttura di accoglienza per il nuovo. Non possiamo mai prevedere il modo in
cui si presenterà, ma dobbiamo aspettarci la sua venuta, cioè attenderci
l’inatteso. E, una volta giunto l’inatteso, si dovrà essere capaci di rivedere
le nostre teorie e idee …”[5]
Ogni
società per esistere deve immaginarsi il proprio futuro. Tutte le comunità
umane hanno cercato nel loro passato gli elementi della cultura su cui fondare
le basi sociali della personalità delle nuove generazioni. I miti e gli eroi
sono sempre stati utili per proporre, con i modelli che implicano, modalità di
comportamento e proiezioni sociali accettabili e condivisibili, capaci di unire
i membri della comunità fra loro e verso uno scopo.[6]
La
realtà contemporanea mostra i sintomi del mutamento in corso:
dall’individualismo sempre più marcato, dal narcisismo all’edonismo sempre più
cinico; la trasversalità del potere che si impone anche senza ideologie
apparenti. Non esistono più verità assolute, ognuno crea un proprio mondo
rivendicando il diritto di mescolare senza discernimento nuove tecnologie con
superstizioni e riti tribali.
Una
delle superstizioni cui mi riferisco è la stessa di Robinson Crusoe:
“Una mattina, verso mezzogiorno, mentre mi
avviavo verso la barca, con mia enorme sorpresa vidi nitidissima, impressa
nella sabbia della spiaggia, l’orma di un piede umano scalzo. Rimasi immobile,
fulminato come se avessi visto uno spettro. Tesi l’orecchio, mi guardai
attorno, ma non sentii alcun rumore, non vidi nulla. Salii sopra un’altura per
spingere lo sguardo più lontano. Percorsi la spiaggia in lungo e in largo, ma
non vidi nessun’altra impronta oltre a quella. Tornai sui miei passi per vedere
se ci fossero altre orme, oltre a quella, e per assicurarmi che non si fosse
trattato di un’allucinazione; ma non c’erano dubbi: si trattava proprio
dell’impronta di un piede, con le dita, il calcagno e ogni altra sua parte.
Come potesse trovarsi in quel modo non lo sapevo, né potevo assolutamente
immaginarlo. Ma dopo aver avanzato fra me e me le più svariate e confuse
ipotesi, come può accadere a un uomo letteralmente stravolto e sbigottito, feci
ritorno alla mia fortezza … in preda a indescrivibile terrore, guardandomi alle
spalle ogni due o tre passi, credendo di vedere chissà che in ogni albero e in
ogni cespuglio, e scambiando per un uomo tutti i tronchi che mi apparivano di
lontano. Quando raggiunsi il mio castello, mi rifugiai all’interno come se fossi
stato inseguito da qualcuno. Quella notte non chiusi occhio. Più ero lontano
dalla fonte del mio terrore, più sentivo aumentare la mia angoscia. Ciò può
sembrare contraddittorio ma la mia angoscia era provocata dalle idee spaventose
che io stesso alimentavo in me, elaborando sul fatto le più sinistre fantasie e
sebbene in quel momento mi trovassi molto lontano dal luogo in cui avevo fatto
quella scoperta spaventosa. A volte ero indotto a pensare che quella fosse
l’orma del demonio, e la ragione sembrava confortare una siffatta ipotesi:
com’era possibile, infatti, che un essere umano fosse giunto in un luogo
simile? Dov’era la nave che lo aveva portato sin lì? La paura soffocava in me ogni religioso sentimento di speranza.”[7]
La
paura è il prodotto dell’incertezza e la paura produce nuova incertezza. Il
disagio che esisteva nella modernità nasceva un tipo di sicurezza sociale che
assegnava alla libertà un ruolo troppo limitato nella ricerca della felicità
individuale. Il disagio della postmodernità nasce da una libertà nella ricerca
del piacere che lascia uno spazio troppo limitato alla sicurezza individuale.
Nella vita intesa come gioco dai consumatori postmoderni, le regole cambiano
continuamente, la strategia vincente è quella di chiudere ogni partita
velocemente, dividendo ogni sfida volta a dare senso al mondo in una serie di
partite brevi e veloci. Si usa definire questo modello della vita quotidiana
come un “vivere alla giornata” che diventa una successione di piccole emergenze
che elimina ogni impegno a lungo termine.
Il presente esiste separato dal passato e dal futuro in questo modo il
tempo diventa una sequenza arbitraria di momenti presenti nei quali si possono
adottare diversi comportamenti ed identità sfuggendo alla responsabilità degli
atti compiuti prima di oggi, di adesso. In questo modo le gratificazioni future
per l’impegno presente e continuo perdono di significato E non sono più in
grado di motivare l’agire razionale verso un obiettivo successivo. Il
soddisfacimento del desiderio-bisogno immediato diventa il principale fattore
dell’agire. Ciò induce a una perdita di responsabilità nei confronti di quel
che si è compiuto e delle conseguenze che questo può aver prodotto sugli altri.
L’incertezza
che ne deriva è opprimente e produce una sorta di assedio della paura.
Per
Zygmunt Bauman alcuni dei fattori che lo alimentano sono:
A)
il nuovo disordine mondiale;
B)
la “deregulation” universale;
C)
il venir meno delle reti di protezione dei rapporti di vicinato e familiari;
D)
la continua contrattazione delle relazioni sociali e la loro breve durata;
E)
la frammentazione delle identità sociali individuali.[8]
Ogni
elemento che produce ulteriore incertezza ed insicurezza è visto come un
nemico, comprese le persone che ci appaiono inutili al fine di soddisfare un
nostro desiderio. Esse diventano meritevoli d’odio se appaiono un richiamo a
qualsiasi tipo di responsabilità etica e sociale e, quindi, un ingiustificato
ostacolo al proprio agire. Non per caso un 48% degli europei ritiene
l’immigrazione il principale elemento di insicurezza a partire dal 2014. Prima
la preoccupazione prevalente era quella relativa alle difficoltà economiche e
alla disoccupazione.
Il
paradigma della crescita, dello sviluppo, ha prodotto un’umanità postmoderna
che assume valore solo se consuma. E’ il paradosso del ciclista: finche si
muove rimane in equilibrio, se viene meno l’accelerazione o la forza d’inerzia
cade. Le società formate da individui motivati solo dalla soddisfazione dei
desideri individuare non può rimanere coesa ed è preludio a conflitti sempre
più estesi.
Ecco
allora che il viaggio proposto da Michele Nardelli arriva al momento giusto. Si
pone l’obiettivo di andare ad ascoltare gli altri, che vivono esperienze
differenti, che cercano strade diverse, per costruire relazioni e legami
significativi capaci di strappare l’uomo e le comunità postmoderne dalla loro
prigione di consumatori desideranti.
Non
vi è dubbio che le considerazioni fatte finora si riferiscono prevalentemente a
paradigmi costruiti su misura delle realtà urbane. Per questo che le aree
periferiche e marginali sono quelle che ospitano le più interessanti esperienze
innovative capaci definire un nuovo paradigma per interpretare il mondo e
rispettarne l’integrità. O più modestamente per trovare il modo di viverci, da
ospiti meno invadenti e distruttivi.
Per
questo la seconda tappa del suo viaggio avverrà a Belluno. Il territorio
dolomitico è una in una situazione speciale. E questo non per ragioni etniche o
per presunte superiorità dei bellunesi rispetto ad altre persone che abitano il
pianeta in altri luoghi. Ognuno sa che una comunità di umani necessita di
integrazione e soddisfazione dei bisogni individuali e collettivi, di
connessioni emotive condivise[9],
di potere, inteso come percezione della capacità di influire sulla realtà, e di
senso di appartenenza. Non diversamente dagli individui anche le comunità hanno
bisogno di autostima. Se ce l’hanno sono in grado di accettare e ospitare la
novità, l’estraneo, lo sconosciuto, il diverso. Se non ce l’hanno si produce
razzismo e isolamento, solitudine, disgregazione e indifferenza. Una comunità
forte e consapevole di sé garantisce sicurezza individuale e collettiva ma,
inevitabilmente, limita la libertà individuale “costringendo” entro regole
condivise l’agire dei suoi membri. Per questo motivo le persone fuggono dalle
piccole comunità e sono attirate dall’anonimato della convivenza urbana che
lascia ampia libertà all’individuo poiché i cittadini sono slegati gli uni dagli
altri (perché indipendenti economicamente) e per questo più facilmente
indifferenti e soli. Le comunità di dimensioni ridotte, come quelle che
popolano le Alpi, e le Dolomiti in particolare, che non hanno potuto e saputo
equilibrare l’appartenenza comunitaria e la libertà individuale, si sono
disintegrate e non esistono più. Quelle che hanno mantenuto vive le connessioni
emotive e che hanno avuto sufficiente potere sono sopravvissute e prosperano.
Le comunità bellunesi hanno avuto, in seguito al crimine del Vajont, un
eccezionale apporto di investimenti pubblici (più di 200 miliardi di lire) dal
1965 al 1990 che ha permesso loro, tramite la piena occupazione in manifattura,
di soddisfare i propri bisogni materiali. Questo ha permesso la sopravvivenza
di gran parte delle connessioni emotive nelle reti sociali finché i vincoli di
parentela sono stati estesi e la mobilità occupazionale ridotta. Le vicende
vissute insieme nel corso del ‘900 hanno prodotto un sentimento di appartenenza
assai robusto e resiliente al fascino dell’urbano e del cosmopolitismo. Il
quarto elemento su cui si fondano comunità dinamiche e floride, invece, è stato
costantemente eroso fino all’attuale annichilimento. Le comunità bellunesi
avvertono con chiarezza che non hanno più rappresentanza politica e che il loro
potere contrattuale con le altre istituzioni (stato e regione) è svanito. Si
sentono in pericolo ed esposti al rischio di dissoluzione della loro sicurezza
e del loro benessere arrivato tardi e in modo molto veloce. Questa possibilità
è tutt’altro che remota.
Il
bellunese ha dieci particolarità presenti anche in altre comunità alpine e
rurali ma non tutte dieci insieme, contemporaneamente, in un unico territorio.
- È
interamente montano con quote medie delle residenze di circa 800 mt. slm.
- Confina
con uno stato estero (Austria).
- Confina
con due province a statuto speciale (Trento e Süd-Tirol) che hanno un potere
politico formidabile.
- Confina
con una regione a statuto speciale (Friuli Venezia Giulia).
- Ospita
consistenti minoranze linguistiche ladine e germanofone (ben superiori a quelle
che hanno permesso a Trento di ottenere l’autonomia.
- Ha
visto dal 2005 al 2014 la consultazione con referendum di sedici Comuni per
chiedere il trasferimento ad altra regione confinate come stabilito dall’articolo
costituzionale numero 132 secondo comma. In otto di questi (Lamon, Sovramonte,
Cortina d’Ampezzo, Colle santa Lucia, Pieve di Livinallongo, Sappada, Taibon,
Voltago) i referendum sono stati vinti con il 90% dei voti. Ad oggi nessuna di
queste legittime richieste ha avuto una risposta.
- È
un territorio che rappresenta il 20% del Veneto ed ha 200 mila residenti, pari
al 3% dell’elettorato regionale, che riesce ad eleggere solo due consiglieri su
55 in Consiglio regionale.
- La
legislazione locale è regionale e, per forza di cose, punta a soddisfare gli
interessi della maggioranza dei Veneti che esprimono bisogni della pianura e
delle città che sono, spesso, l’esatto opposto di quel che serve alle comunità
che popolano la montagna.
- L’istituzione
Provincia, che era l’unica in grado di operare una sintesi degli interessi
delle comunità dolomitiche bellunesi, è stata ridotta ad un mero consorzio di
Comuni, non più eletta a suffragio universale come stabilito dalla Carta
europea delle autonomie locali. È stata inoltre privata di un terzo dei suoi
dipendenti e di tutti i trasferimenti dello Stato (-23 milioni di euro) e delle
entrate tributarie proprie (-21 milioni di euro) mettendola nella condizione di
non poter operare nell’adempimento delle sue funzioni fondamentali, assegnatale
dallo Stato che la priva dei mezzi per poterle esercitare.
- Ha quasi tutto il
territorio vincolato da norme regionali e nazionali a protezione dell’ambiente.
Le zone SIC e ZPS sono 43 pari al 54% del territorio bellunese, contro una
media del 23% del veneto (dove Verona ne ha il 7%). Proteggere l’ambiente è una
cosa buona e necessaria, ma perché lo si fa vincolando tutto il bellunese e
lasciando il resto del territorio regionale libero da vincoli?
In
considerazione di tutto questo l’esistenza delle comunità bellunesi è un
autentico miracolo. Ma non durerà a lungo, il saldo naturale è costantemente
negativo dal 1994, ed è arrivato al record di – 1223 nel 2015, abbiamo il più
basso indice di natalità, di nuzialità e fecondità del nord-est, negli ultimi 8
anni il PIL è diminuito del 12%, la disoccupazione è cresciuta dal 3% al 9%, e
metà dei giovani diplomati e laureati emigrano. Numeri da collasso sociale
imminente se non fosse per la resistenza tenace e vigorosa della manifattura che,
nonostante le formidabili difficoltà, (in 10 anni si sono perdute 1000 imprese
su 15 mila) continua ad occupare il 50% degli attivi.
In
questa situazione il bellunese pone alcuni problemi che vorremmo porre al
centro della riflessione da offrire all’amico Michele Nardelli nel suo viaggio:
- Qual
è oggi e quale sarà domani il destino delle aree e delle comunità periferiche?
- Si
può coniugare la tutela delle autonomie locale con il disegno di uno stato
democratico europeo?
- Si
può consolidare il potere locale delle comunità periferiche senza produrre
separatismi e conflitti?
- Si
può consolidare il potere locale delle comunità periferiche praticando la
democrazia e l’accoglienza verso gli altri o questo porta con sé
necessariamente autocrazie locali ostili al prossimo loro?
- Il
potere locale aiuta a “dirigersi verso le
periferie, non solo quelle geografiche ma anche quelle esistenziali”
come papa Francesco esorta a fare?
- Dobbiamo
rassegnarci alla “brutalità e complessità
nell’economia globale”[10]
e rinunciare alla speranza o abbiamo il dovere di proporre una visione
democratica, aperta, compassionevole e solidale del diritto alla identità locale,
che diventi valore universale, su cui costruire il reale riconoscimento della
dignità di ogni essere umano?
- C’è
modo di contrastare la devastante tendenza verso la concentrazione urbana e le
sue terribili conseguenze sugli equilibri ecologici e politici del mondo,
garantendo a chi vive nelle periferie l’accesso ai diritti?
- Come
possiamo dare il nostro contributo per cambiare il paradigma post moderno della
crescita economica come unico e autoritario modo di vedere il futuro degli
uomini migliorare? Si potrà vivere bene anche con meno distribuendo meglio
quello che abbiamo rispettando i limiti imposti dal nostro pianeta?
Un
vasto programma per dirla con De Gaulle. Ma nelle nostre intenzioni non ci sono
pretese ideologiche, non abbiamo necessità di vetrine nelle quali mostrarci
pensandoci migliori degli altri, non ci servono risultati da esibire come
trofei. Allo stesso modo non abbiamo soluzioni da proporre né pensiamo che le
avremo dopo questo atipico giro d’Italia. Quello che desideriamo, io e Michele
per primi, consapevoli dei nostri limiti, è ricominciare a parlarci per
ascoltare le vite, le storie e le visioni di molti che oggi si sentono sperduti
come viandanti che abbiano perduto la nozione del tempo e del luogo che
attraversano. Se siamo viandanti sperduti oppure con una precisa conoscenza
della rotta non lo sappiamo. Sappiamo però che un viaggio degno di questo nome
lo si fa insieme. Insieme a tutti quelli che si incontrano.
Per questo chiediamo ad ognuno di Voi di offrirci il
contributo della propria esperienza partecipando ad un incontro previsto per il
23 aprile alle ore 17 presso
l’ISBREC, (Istituto storico della resistenza e dell’età contemporanea) di
Belluno in piazza del Mercato, oppure per realizzare degli incontri da
concordare per il giorno 24 aprile 2017.
Invio
a tutti i voi i materiali prodotti finora e resto In attesa di vostre adesione
o richieste di chiarimenti.
Diego
Cason
[1]
Francesco
Laudato si’, Lettera enciclica sulla cura della casa comune, Libreria editrice
vaticana, 2015, punti 157,
[2]
Fritjof
Capra, Verso una nuova saggezza, Feltrinelli, 1989
[3] Christian de Quincey,
Radical Knowing: Understanding Consciousness through Relationship (Radical Consciousness
Trilogy) Paperback August 16, 2005
[4] AA.VV. Creatività e
crisi della comunità locale. Nuovi paradigmi di sviluppo … Franco Angeli
editore. Temi dello sviluppo locale – diretta da E. Minardi, pg. 125
[5]
Edgar
Morin, I sette saperi necessari all’educazione del futuro, Cortina, 2001, pp.
30-31
[6]
G. Durand, Les structures anthropologiques de l’imaginaire,
Grenoble 1960 (trad. it. Bari
1972).
[7]
Daniel
Defoe, Robinson Crusoe, Feltrinelli, Milano, 1993, pg. 166-167
[8]
Zygmunt
Bauman, la società dell’incertezza, Intersezioni, Il Mulino, Bologna, 1999, pg
27 e seguenti..
[9] Mc Millan W.D. Sense
of community: a definition and teory, in Journal of psicology, vol. XIV, n.
1.
[10]
Saskia Sassen Espulsioni. Brutalità e
complessità nell’economia globale, Il Mulino, Collezione di testi e di studi,
2015