Attraversamenti. Da Venezia a Rijeka
di Micaela Bertoldi
Pensieri e domande sul nostro tempo
Note dal quarto “Viaggio nella solitudine della politica”
13 – 16 settembre 2017
Prologo
Delle premesse non dico. C’è fin troppo nel sito Zero-Sifr, e negli scritti di Michele Nardelli e di Federico Zappini, un luogo che propone uno scarto di pensiero tra curiosità e meraviglia. Luogo che si presume collocato e collocabile in una dimensione del tempo situata tra il “non più” e il “non ancora”.
Mondi all’alba
Come cogliere la poetica
di mondi all’alba
con nuovi mattini aperti
alle ore di speranza?
Forse si compirà un viaggio
nei romitori moderni
di una politica in fasce
dove il pensiero giace in attesa
di sguardi attenti ai bisogni e
di braccia che si facciano culla
per nuove creature uscite alla luce
tra il silenzio e l’urlo della spinta creativa.
Nelle abbazie carsiche delle menti
oggi solo cori muti di timide voci
tentano di annodare i fili delle solitudini
per ricomporre l’adeguato reticolo
di energie e di resilienza
finché alla vista di occhi increduli
comparirà la forza segreta
della solidarietà umana.[1]
Verso Venezia
Dunque, siamo all’inizio del quarto viaggio.
– Nelle solitudini della politica o nella storia di un territorio?- mi chiedo.
Se è vero che, in parte, le due cose arrivano a coincidere, è pur vero che almeno questa volta prevale il secondo aspetto: il toccare con mano il peso della storia nei territori situati ad est, in limine.
A scanso di equivoci, scartando presagi di malaugurio, è bene chiarire che in questa parte di Europa, il termine ha avuto grandemente a che fare con la dizione ‘in limine mortis’.
Sì, perché di sangue e di morte di milioni di persone, le terre tra Italia e Slovenia hanno avuto esperienza, fin dall’inizio del Novecento: di sangue, di lavoro estenuante, costretto nei campi di sfollamento e distruzione, e di sudore, patito nelle fatiche antiche dei cantieri navali. Cantieri storici e nobili del grande arsenale di Venezia, cantieri delle aree portuali d’epoca industriale posti in tutto l’arco di costa adriatica che da Marghera passando per Monfalcone, arriva a Trieste e prosegue lungo l’Istria fino a giungere a Fiume.
Il limes, i tanti limina, sempre più estesi in epoche di conquiste di Roma, hanno da sempre mostrato la loro doppia (almeno) possibile natura: di termine ultimo e di linea da oltrepassare, sconfinando appunto verso altri territori, altre popolazioni e culture. Incontrandole, quindi, per impararne lingua, usi e costumi. Oltre che per ricavarne risorse. Quasi sempre si è imposta l’accezione di frontiera: gli interessi economici l’hanno plasmata, con dazi e dogane a farne corollario. Troppo spesso è emersa la natura di spazio invalicabile, segnato da barriere e cavalli di frisia, attraversati in entrambe le direzioni da eserciti e carri armati. Limes offeso da calzature militari, uomini condotti a morire per ‘la difesa dei confini’. Il nazionalismo che dall’Ottocento in poi ha mietuto vittime a milioni ancora oggi affiora non appena ci si trova sulle linea di quei confini che, dalla Unione Europea e dai patti di Schengen in poi sembrerebbero essere stati superati, almeno per via dell’assenza delle lunghe file di automobili in attesa dei controlli (doppi) dei militari e dei doganieri dell’una e dell’altra parte.
Parto, con la solita approssimazione che precede le partenze. Faccio i bagagli provando a non dimenticare cose essenziali. Nel pomeriggio sono stata fino a tardi con Rossella e Carolina, così poi mi sono dovuta affrettare. Eppure da un po’ sentivo il bisogno di salire su un mezzo dotato di motore che potesse portarmi in altre geografie a osservare altri paesaggi. Naturali e non.
Dopo una breve sosta in autostrada per un caffè, nel giro di poco tempo siamo a Venezia, unitamente all’automobile che trasporta Giuseppe Ferrandi, suo figlio e Federico Zappini che, potendo rimanere solo nel primo giorno di visite ai territori di questo limes orientale, hanno scelto di essere autonomi per il trasporto.
Con il pullmino di Michele invece si è in sette: Gabriella, Sohelia e Razi – i registi- con il figlio Sepanta, Francesco ed io.
Subito ci si avvia sul molo dove c’è ad attenderci una barca – scafo di nove metri, a motore, dato che ha lasciato ad altri tempi le vele – guidata da Cristina che sarà la nostra accompagnatrice e guida. Insieme a lei Giovanni Andrea Martini, prosindaco di un municipio del centro storico e una giovane storica, Elisabetta Triveron e Andrea Rossini, giornalista Rai e collaboratore di Osservatorio Balcani Caucaso Transeuropa.
Ferrandi e Zappini si dirigono invece direttamente al Museo della Storia, per incontri di approfondimento specifici.
Eccoci quindi sulla barca, con un piacevole sole a illuminare i riflessi dell’acqua sollevata a piccole onde morbide dall’impulso del motore. La laguna si apre davanti a noi, che ci apprestiamo a addentrarci in scorci inconsueti.
Fiancheggiando la Giudecca, la barca gira intorno al nucleo cittadino, si dirige verso le isole esterne. In lontananza, ma non troppo, si vede Murano.
Ed è il momento per aprire lo sguardo sulla bellezza dell’Arsenale, potendo costeggiarlo dal mare ed anche entrare a vederlo nella sua spazialità interna. Splendido manufatto, grande intelligenza nella distribuzione delle funzioni che in tempi lontanissimi aveva garantito una organizzazione industriale ante litteram: divisione del lavoro con coordinamento in catena dei vari momenti del processo di costruzione di una nave. Nel giro di quarantotto ore veniva prodotta una nave.
A difendere i segreti ‘industriali’ e quelli interessanti militarmente- numero di navi, tipologia- c’erano le mura esterne dell’arsenale veneziano: le uniche mura di una città senza mura, conservata e protetta dalle acque.
Più oltre, la barcarola ci porta a vedere l’arsenale artigianale e il porto per barche e yacht privati: avrebbe dovuto essere un piccolo porto, ed invece si è allargato a dismisura. Sono state costruite barene artificiali pur di avere un contesto adatto: a fronte delle tante barene naturali distrutte dal moto ondoso e dall’eccesso di presenza delle grandi navi.
Qui si tocca con mano l’impronta umana sull’ambiente! E viene da chiedersi come mai non si rendano conto che la stessa risorsa di cui si nutrono gli affari turistici rischia di essere svuotata proprio dalla mole di questi traffici.
Poi si prosegue verso La Certosa diretti a Sant’Andrea. Lì scendiamo a visitare il forte, massiccio nelle mura, con scale su scale a condurre su terrazze di diversa elevazione. Dall’alto, tutto l’orizzonte è sotto controllo. L’imbocco al canale di ingresso a Venezia era davvero presidiato.
A tutt’oggi la zona, limitrofa alla costruzione che abbiamo visitato, è zona militare. Vietato ai curiosi!
In uno dei punti dell’isola sta il presidio del ministero della Marina.
Poi si riparte, costeggiando la grande Venezia dal lato in cui si succedono le isole di San Lazzaro, San Servolo, San Clemente e La Grazia, luoghi dediti a servizi sanitari ospedalieri, oggi come per altro in passato: lazzaretto, manicomio femminile e maschile, sanatorio.
Quindi si sbarca per andare a visitare il museo della resistenza, Iveser, Istituto veneziano per la Storia della Resistenza e della Società contemporanea, in una bella villa comprata (a fine Settecento?) da un francese che poi poco l’aveva utilizzata. Incontriamo la direttrice del Museo e il Presidente dell’Istituto della Resistenza Martini. Lì è allestita una mostra su “L’esilio di una famiglia”, quella di Silvio Trentin[2], padre del sindacalista Bruno.
Negli anni del fascismo, Silvio e la moglie avevano dovuto espatriare in Francia con i due figli, e lì era nato il terzo, Bruno.
Sostenitori del dovere di contrastare i fascismi, si erano adoperati per aiutare sia i resistenti della guerra di Spagna, sia successivamente i partigiani antinazisti.
Silvio finito in carcere, era infine morto, lasciando le sue opere con un pensiero importante: Liberare e federare e consegnando ai figli il compito di proseguire nella lotta politica per i diritti dei deboli.
Dopo la visita al museo, la barca ci porta ad un approdo adatto per attraversare a piedi la Giudecca fino al Canale Grande, giungendo sulla riva dove si pranza col piacere aggiuntivo di trovarci in un ristorante modernamente storico, ovvero ‘che passerà alla Storia’ in quanto il proprietario è l’organizzatore della raccolta di fondi per salvare l’isola di Poveglia dalle speculazioni.
Da lì, ci si rimette in moto e la barcarola ci conduce nuovamente nel cuore della laguna: lasciando la Giudecca, giungendo al Mose, l’inutile ‘cattedrale della tecnologia’ inefficace, per la quale si sono spesi milioni e si è deturpato il paesaggio.
Quindi si esce diretti a Marghera, passando davanti alle grandi costruzioni industriali, ai cantieri, al porto dove giungono i mostri pieni di container.
La sorte ovviamente non ci risparmia la vista delle navi giganti dei turisti- veri condomini viaggianti – che pretendono l’accesso al Canal Grande solo per rimanervi cinquanta minuti: causando danni enormi, sia per lo scavo realizzato per approfondire il canale, sia per le ondate che vanno a erodere i fondali.
Ognuno riflette a modo suo, mentre si fiancheggiano le immense navi trainate dai rimorchiatori, navi di sevizio che permettono di seguire i punti giusti nelle vie del porto. Sono brutte, scure, con grandi richiami al rischio incendi (safety smoking), altissime. Sollevano onde che la nostra barca deve fronteggiare riducendo la velocità al minimo.
Le onde mosse sono poi ancora più rilevanti quando a passare sono i motoscafi taxi o quelli privati che superano la velocità consentita. Cristina dice che all’imbocco del canale, al giro dell’Isola di S. Elena (‘Il nostro Capo Horn’- lo chiamano i veneziani) recentemente si sta effettuando qualche controllo, con erogazione di multe. Poi, oltrepassati i rilevatori di velocità, i piroscafi riprendono a correre a più non posso.
Infine il periplo della laguna termina a Fusine: la stazione che cede il passo alla terra ferma di Marghera.
Razi Mohebi e Soheila Javaheri[3] hanno scelto di riprendere i punti più interessanti del percorso, soffermandosi sui campi lunghi e anche sui dettagli: l’Arsenale come monumento solido e classicheggiante, il Forte come baluardo della forza, il Mose, come illusione tecnocratica del potere umano sulle forze naturali, il porto industriale come immensa città di tubi, antenne, container che pare spenta e nascostamente brulica di fatiche, di commesse esigenti dei committenti, di speculazioni ambientali che hanno caratterizzato uno sviluppo incapace di comprendere il senso del limite.
Nel municipio, siamo raggiunti da Federico e da Beppe col figlio Mirco. Qui si svolge l’incontro con Gianfranco Bettin. Con lui si apre una diga di parole circa la fatica di fare politica oggi, specie in una città dove il sindaco è di destra . Ha vinto le elezioni, ma perso tutti i municipi. Per impedire ogni iniziativa dei municipi ha tolto loro ogni risorsa finanziaria, lasciando gli amministratori a destreggiarsi tra vecchi e nuovi bisogni, tra problemi di egoismo rampante e di immigrazione non compresa e non accettata.
La sorte stessa di Venezia e dintorni continua ad essere trascurata. Il cuore di Venezia – la piccola ‘isola’ turistica – si trova in mezzo a un enorme territorio sconquassato da industrie fallite, da cantieri e da commerci basati sullo spostamento di containers, circondata da forte inquinamento. Questa è Venezia, una città dove i partiti non sono in grado di affrontare la benché minima sfida, dove si cerca, con la forza di nuclei di resilienza, di fronteggiare al meglio l’aggressione alle conquiste sul piano dei diritti e della solidarietà. Si avverte proprio che si è in una fase in cui ‘il passato che non passa’, incide profondamente, impedendo di vedere le prospettive verso cui dirigere un’azione politica.
Per ora- dice Bettin – i vincoli industriali paradossalmente impediscono che tutta l’area venga edificata e così si bloccano alcune speculazioni. Forse non verrà distrutta la parte che, secondo certi progetti, avrebbe dovuto diventare la terza zona industriale, in base a quanto raccontato da Cristina. La destinazione portuale frena le edificazioni. Questo funzione prima era garantita da una consapevolezza – civica e politica – e dalla composizione sociale che rendeva coerente e convinta la scelta. Oggi lo spiazzamento scardina ogni lungimiranza. Viene colto solo l’interesse a breve. La deriva nel particolare è pesantissima. Rappresenta lo stadio ulteriore della crisi dei partiti; è la risposta ad esso.
Gianfranco Bettin passa in rassegna i problemi legati allo scandalo Mose, alla corruzione del Consorzio Venezia Nuova, alla speranza che con la Via della Seta – e i rapporti con i cinesi – il porto possa recuperare funzione. Esprime il desiderio che la via della Seta, col suo tratto cosmopolita storicamente legato a Venezia, possa aiutare a tenere insieme la Venezia storica e turistica, con la Venezia di una Marghera industriale, il cui territorio è dieci volte più grande del cuore storico. I duemila ettari industriali del porto appaiono nella loro immensa estensione proprio costeggiandoli in barca: ne abbiamo avuto netta percezione!
Anche se, e lo vedremo in seguito, la previsione di Bettin si pone in concorrenza con le attese di Monfalcone per la cantieristica, e con Trieste, per tutte le relazioni commerciali. Monfalcone e Trieste si prefiggono lo stesso obiettivo.
C’è una base sociale in mutazione, che ha esaurito la funzione svolta in passato e questo non aiuta la politica a individuare per l’intera costa adriatica delle prospettive convergenti, anziché conflittuali e corporative.
Il “prima noi” colpisce soprattutto le parti deboli, il ceto dai profili face book che pensa prima a se stesso.
Paure[4]
Noi e Loro, gli esclusi, i reietti
in un mondo sempre più stretto
da noi stessi compresso
con ostili ombre dipinto,
e nemici creati su misura
o ridestati da secoli andati.
Cosa c’è da stupirsi se paura
alberga nei cuori e serpeggia
per le strade delle città?
Come reagire? Il civismo, la territorialità, le liste civiche possono fare qualcosa ? Come ricostruire una praticabilità di campo?
Forse rilanciando un processo che riguarda la rigenerazione urbana, nel suo complesso. Servono luoghi e percorsi che possano fare comprendere e acquisire condivisione su un progetto che guarda al futuro – ricorda Federico Zappini.
E mi fa specie che il nostro ospite non ci parli di esperienze come quella del movimento “mi da chi no vago via” o di “Veneziamiofuturo Venicemyfuture”. Come se i luoghi sociali e politici che si prendono a cuore le sorti della città don ‘dovessero’ o non potessero coordinarsi, comunicare tra loro. Certo, nel confronto dialettico, ma interagendo.
Alla fine siamo raggiunti da Maria Fiano, redattrice insieme a Beatrice Barzaghi della Guida alla Venezia ribelle.
Una sosta al bar con un bicchiere di vino bianco concede poi di rilassare la conversazione riportandola al solo piano amicale. Con Gabriella ragioniamo circa la difficoltà di portare avanti un cambio di mentalità. Da insegnanti conosciamo la fatica educativa, specie con i bambini provenienti dagli ambienti sociali meno fortunati, condizionati dal consumismo imperante e con i quali non è per niente scontata la pratica di atteggiamenti solidali.
Ripreso il pulmino, salutati gli amici che devono rientrare a Trento, ci dirigiamo a Mira per trovare le stanze prenotate. Sbagliando strada, ascoltando- più o meno- la ‘signorina’ che dal navigatore dava indicazioni poco utili, e sorridendo della conferma avuta circa la scarsa affidabilità dei mezzi informatici.
Giovedì 14 settembre 2017
Monfalcone.
Dopo una colazione tranquilla, ci si rimette in moto ‘sulle tracce dei Monfalconesi.’ In programma c’è l’incontro con Adriano Persi, già sindaco della città.
Lo incontriamo a Ronchi dei Legionari[5], nella sede del Consorzio Culturale del Monfalconese, posta nei pressi dell’Auditorium nel centro cittadino.
In modo competente e appassionato, Adriano Persi entra subito in argomento: cosa fu il Novecento per la sua terra, posta tra Carso e Isonzo.
-In seguito alla vittoria italiana nella prima guerra mondiale, la città con il nome di Ronchi di Monfalcone entrò a far parte del Regno d’Italia, come parte della provincia di Trieste. Quando nel 1919 Gabriele d’Annunzio diede inizio alla ‘impresa fiumana’, i suoi legionari partirono da Ronchi di Monfalcone. A causa di tale ‘impresa’, dal 1925 la città assunse il nome di Ronchi dei Legionari. Durante la seconda guerra mondiale fu un punto nodale per la resistenza partigiana: da qui il titolo di “Ronchi dei partigiani” che la città meriterebbe, per il supporto delle unità partigiane slovene fornito dalla popolazione di Ronchi. Dopo l’otto settembre 1943 fu costituita una Brigata partigiana per la difesa del territorio dall’invasione tedesca insieme ad alcuni ufficiali e soldati del dissolto Regio Esercito italiano.
A partire da questa specificazione storica, entra nel vivo della conflittualità che ha tagliato il tessuto sociale, con contrapposizioni etnico- politiche non ancora sanate completamente: l’eredità del Novecento de delle sue guerre!
Racconta:
Monfalcone, paese di pescatori e di terre incolte, con 4000 abitanti, a inizio Novecento, aveva accettato di scavare la scogliera per costruire un cantiere e favorire la rivoluzione industriale. Nel 1908, con l’arrivo di persone provenienti da tutte le parti, era arrivata a diecimila abitanti. Il numero era poi cresciuto nel dopoguerra con la cantieristica. Prima del fascismo, in quella città, multietnica e multireligiosa, la convivenza era tranquilla. Poi però le scuole slovene erano state chiuse. Nel ‘nuovo stato italiano’ il fascismo si era consolidato. Ciò aveva prodotto in buona parte della popolazione un’ostilità contro gli italiani
Poi la seconda guerra mondiale. Tralasciando il quadro generale, Persi si concentra sul tema principale del nostro incontro, relativo al ruolo svolto dagli operai di Monfalcone che, dopo l’otto settembre 1943 si erano riuniti nella prima Brigata Proletaria.
In una prima battaglia contro i tedeschi, i ‘cantierini’ italiani e slavi avevano combattuto per fermare i nazisti. Ma lo scontro aveva avuto una fine drammatica, data l’inesperienza militare. Tutti erano fuggiti, dispersi e quando i tedeschi erano entrati a Gorizia, mezza città, la parte occupata, li aveva applauditi.
La buona accoglienza riservata ai tedeschi al loro arrivo dopo l’otto settembre era direttamente collegabile alla negazione delle diverse culture etniche e ai rancori per la ‘italianizzazionÈ forzata del regime fascista nel primo dopoguerra.
L’esperienza vissuta nell’immediato passato, non rielaborata, aveva causato una esplosione di contraddizioni non risolte.
All’inizio della storia dei cantieri, c’era stata scuola di formazione, di sindacalismo. Le idee di classe e di politica sotto il fascismo erano state silenziate, ma dopo l’otto settembre del ’43, la Resistenza si era ripresa il suo ruolo, con i GAP partigiani, movimento comunista e resistenza cattolica. All’interno dell’esercito Jugoslavo, operava la Brigata Garibaldi italiana.
A fine guerra, a Monfalcone era nato il Partito Comunista Giuliano, fuori del PCI, con un segretario autonomo rispetto ai comunisti italiani e a quelli jugoslavi. Partito nato nell’agosto del 1945, e già finito nel settembre del 1947 con alcuni militanti passati nel PCI, altri nel PC Jugoslavo.
Secondo la parte slava, questo territorio avrebbe dovuto diventare la ‘Settima Federativa’, all’interno della Jugoslavia. Ma gli antifascisti italiani e sloveni, con sede a Monfalcone (città liberata il primo maggio dalla brigata titina e il 3 maggio dai neozelandesi) si trovarono divisi, in conflitto.
Monfalcone rimase in mano agli Alleati, Trieste per 45 giorni in mano agli Jugoslavi e poi ceduta agli Alleati.
Trieste rimase territorio libero fino al 1954 e poi diventò italiana.
Con quali conseguenze?
Centomila istriani vennero in Italia, trovando l’avversità delle squadracce fasciste ancora attive. Viceversa, tremila monfalconesi partirono per la Jugoslavia, dove li spingeva il credo comunista. Ma nel frattempo la Jugoslavia di Tito ruppe con il Cominform, dato che la Russia avrebbe voluto uno stato balcanico esteso, non una Federazione, e ai monfalconesi, internazionalisti, che continuavano ad appoggiare l’Unione sovietica, venne‘chiesto’ di scegliere.
Chi votò per Stalin venne spedito ai lavori forzati in Bosnia e a Goli Otok. Solo qualcuno di essi, avvisato dai compagni, riuscì a sfuggire a tale sorte.
– Si noti che una parte dei ‘cantierini’ era andata anche a fare la guerra di Spagna ! – commenta Adriano Persi.- Tanta era la fede nell’ideale di una società socialista..
I pochi tornati vivi da Goli Otok, trovarono terra bruciata, furono contrastati da ex compagni e da esponenti della DC che nel frattempo si era affermata, impadronendosi della gestione del territorio. Per lo più furono costretti ad emigrare, dato il clima pesante di umiliazioni: la ‘normalizzazione’ stava avvenendo con l’utilizzo di metodi in precedenza utilizzati dal fascismo, specie a Gorizia e a Trieste.
Poi dopo aver accennato alla fase ‘eroica’ dei canterini, lo sguardo ritorna all’attualità dato che l’importanza dei cantieri per Monfalcone, sul piano economico e sociale, continua ad essere significativa.
-Oggi si è al massimo della manodopera, con tre navi in costruzione in contemporanea. All’opera ci sono circa 1500 dipendenti Fincantieri e 7000 esterni: si è esternalizzata la manodopera. Non si è de-localizzata l’industria, si sono de-localizzati i lavoratori, con super sfruttamento. Molti cantieristi di Fiume sono venuti a Monfalcone. – ci dice Adriano Persi, con riferimento al presente
Il cambiamento di clima – culturale e politico- è grande: tra gli operai del cantiere leghismo, astensionismo vanno per la maggiore. Quanta differenza rispetto a un tempo andato!
Gli chiediamo quanto rimane della vicenda dei canterini monfalconesi durante e dopo il secondo conflitto mondiale, nella consapevolezza della gente di oggi. Ci dice che il ricordo è presente solo nelle famiglie che hanno subito la tragedia, non nell’insieme della comunità.
– Per questo sono utili, nonostante il rischio di retorica, le celebrazioni delle Amministrazioni pubbliche. Possono, almeno in parte, evitare la rimozione completa. In realtà servirebbe maggiore consapevolezza diffusa per evitare il ripetersi dei drammi passati. Ed è grave che a Gorizia, l’attuale sindaco, riceva i rappresentanti della Decima Mas.-
Adriano Persi, in conclusione, afferma che la legge contro l’apologia del fascismo è del tutto necessaria, visto il risorgere di gruppi fascistoidi, impudenti e smemorati.
Alla fine, dopo un pranzo in una trattoria vicina insieme ad un amico di Michele conosciuto in altre stagioni di confronto politico, ci si rimette in moto, diretti a Trieste.
Giunti sulla costa, non può mancare lo scatto fotografico del Castello di Miramare.[6]
In me si fa strada il ricordo di quando, qualche anno fa, sono giunta su questa costa, diretta a Trieste, nella casa di Boris Pahor, abbarbicata sulla costa.
La bellezza dei panorami, l’affetto per il grande scrittore sloveno-italiano[7], che ha patito la deportazione nei campi nazisti, in me sono tutt’uno. Dopo averlo conosciuto di persona, luogo e umanità di Boris – il ‘mio’ professore caro, sono inscindibili.
Avevamo pensato di inserire nel programma una breve visita a lui, risultata non possibile a causa di alcune difficoltà pratiche, tra cui la brevità del tempo.
Tempo che, comunque, pur passando lieve sullo scrittore, nato a Trieste nel lontano 1913, sembra essere sempre troppo rapido, insufficiente rispetto a quanto si vorrebbe poter fare.
Di recente ho sentito la sua voce al telefono, chiara e lucida. Mi ha espresso il rammarico di ‘non avere tanto tempo per seguire le nostre attività’.
Magari ci fossero tanti uomini di cultura con simile coscienza civica, con anelito partecipativo e sensibilità politica circa il futuro.
Perché è dei giovani, soprattutto, che Boris Pahor si preoccupa. A loro cerca di rivolgersi, testimoniando il tragico bagaglio di un secolo, finito senza essere concluso, ovvero senza adeguata riflessione circa i danni delle chiusure etniche, degli autoritarismi totalitari, delle xenofobie razziste.
Dedicato a Boris Pahor
Volto segnato dal tempo
sguardo reso acuto
dall’inquieta speranza
di poter vedere
un diverso domani.
Tale è il tuo essere
in questo presente
dai cieli pesanti
di nuvole grigie.
Sei foglia dall’esile stelo
che resiste
a correnti e tempeste.
Forza di vita
che non cede.
Trieste
Dal castello di Miramare a Trieste, la distanza da percorrere è breve e si è subito in centro città, alla ricerca dell’alloggio per la notte (le ‘Bicocche di Joice. Bed and Breakfast’.)
Due passi in centro, nella Piazza Unità d’Italia (le avessero almeno dato un nome diverso!) poi quartiere San Giacomo, via Ponziana 14, dove in collaborazione con l’Associazione Tina Modotti’, alla Casa del Popolo, incontriamo Gianluca Paciucci, Melita Richter, Marino Vocci.
Di questo incontro mi rimane una sensazione strana, dal sapore di antico.
Penso che derivi dalla predisposizione dei presenti a svolgere un intervento pensato, complessivo. Si percepisce un’alta tensione morale, col bisogno di non disperdere le capacità intellettive e di impegno (educativo, in incontri con le scuole e non solo) in modo da contrastare gli egoismi prevalenti e la mancanza di diritti per i più deboli.
Ma, nello stesso tempo, ne ricaviamo un’impressione di staticità, quasi il pensiero si fosse fossilizzato – una bella ammonite nella pietra rossa – senza più avere capacità di innovazione/comprensione della posta in gioco, della natura delle sfide consegnate dal presente a chiunque desideri tentare di perseguire degli ideali.
Alla domanda “Cosa rimane del delirio novecentesco?” domanda tanto più impegnativa dopo aver visto da vicino Porto Marghera e i cantieri di Monfalcone, sembra difficile trovare risposte.
La politica ha perso. Soprattutto non pare in grado di recuperare la capacità di ascolto. Soprattutto in territori posti ai confini, dove i transfrontalieri vanno e vengono ma sono incapaci di assumere una comunanza di destino.
Melita Richter ricorda che a Trieste è forte la produzione letteraria e culturale, che può avvalersi di cultura germanica, italiana e slava. Ci sono molti festival, eppure manca qualcosa: manca la capacità che tutto ciò si trasformi in cambiamento. Ognuno rimane nell’ambito da cui proviene. Una parte di Trieste non vuole superare il passato, e ciclicamente rispolvera le foibe come topos per la discordia da coltivare, una parte rifiuta di vedere l’altro, nonostante qualcuno cerchi di offrire la conoscenza dei fatti storici.
Emanuele, un giovane di 23 anni, che studia Scienze internazionali diplomatiche, denuncia una politica che evita l’ascolto e il confronto. Tra i giovani c’è molta ignoranza- dice – anche se c’è una fetta di loro interessata a capire.
Marino Vocci denuncia la fatica esistenziale nell’avvertire come insopportabili i pesi (del fallimento della sinistra) e si dice preso dall’ossessione del fare insieme. E aggiunge: Solo chi cambia, scambia. Frase che potrebbe essere anche capovolta.
Denuncia il fatto che la sinistra ha consegnato alla destra alcuni passi della Storia (le responsabilità di una trasparente lettura delle foibe) a causa di un oltraggioso silenzio su Trieste e il confine orientale. La perdita del territorio nazionale- Istria- è avvenuta per ‘colpa della destra e di Mussolini’ , ma è stata la destra a sfruttarne l’esito. Fulvio Tomizza, Paolo Rumiz e tanti altri ne hanno parlato, ma i processi di rielaborazione sono troppo lenti. Lunghi.
Il micro nazionalismo ha una valenza devastante.
A Trieste le questioni ‘nazionalistÈ ‘annullano’ una parte di triestini. Il micro nazionalismo non considera e ignora gli sloveni e la loro lingua. Sarebbe necessario togliere dal silenzio dei temi ancora confinati nell’oblio.
I segni del tempo? Quali sono, oggi? – viene chiesto.
Con una buona dose di rimpianto ci viene detto che, anche qui, gli antichi beni collettivi, gli usi civici, il solidarismo sembrano dimenticati, se non in qualche isola di resistenza lungimirante.
Per lo più raccontano di un diritto che non c’è ormai quasi più.
Qualcuno aggiunge che il tema del sovranismo cresciuto nella crisi dell’Europa, si fa più forte nelle regioni etnicamente ‘impurÈ. Il paradigma novecentesco dello Stato nazione incombe su tutti noi.
Poi Gianluca Paciucci , da comunista, invita a pensare che le idee di Gramsci sono un cantiere senza fine e che non è il caso di buttare via il positivo del Novecento: e cita il femminismo, l’economia della riproduzione, Rosa Luxenburg, Benjamin. E conclude che si tratta di contrastare la tendenza allo smantellamento dei luoghi comuni, intesi come luoghi di comunità. (non del senso comune)
Infine, senza introdurre conclusioni impossibili dati i vari contributi, pare necessario convenire su un fatto: c’è voluta la guerra dei Balcani per suggerire una riflessione sui confini, prima ignorata. Colpevolmente.
Il tema dei limiti, del confine tra storie e culture attende ancora di essere affrontato. Una volta capito quanto è accaduto, si riuscirà – forse – a superare le narrazioni fin qui usate nell’esercizio del potere.
Per ora, avvertiamo, quasi fisicamente, una sensazione di grande ritardo storico nel compiere il passo essenziale di maturazione di un nuovo paradigma.
Annientamenti[8]
Come scava la voce diffusa nell’etere!
la radio[9] non cessa di spiegare
anche a chi non vuole ascoltare:
“il nichilismo ridens”
ha segnato gli anni ottanta
ma ha scavalcato il secolo
con un esercito di mutanti.
L’epoca del politichese
s’è mutata nel ‘gentesÈ
tutto si deve abbassare
fino a strisciare tra le bisce
degli egoismi umani.
Ma chi si attarda
su sguardi fossili
rimane inerme
-il volto girato
ormai statua di sale:
a prospettive di senso
l’accesso è negato.
Dopo la conversazione avuta, durante la cena presso l’Osteria sociale posta a piano terra, questa ‘Casa del popolo’, ci lascia la sensazione di qualcosa alquanto ‘ fuori dal tempo’, quasi estranea alla storia attuale.
Venerdì 15 settembre 2017
Ancora Trieste
Di buon’ora si fa la colazione al Caffè degli Specchi, in piazza Unità d’Italia.
Poi andiamo all’appuntamento previsto presso il Caffè Tommaseo. (h. 10) per la conversazione con il giornalista scrittore Roberto Curci a partire dal suo libro “Via San Niccolò 30”
L’incontro si rivela assai interessante, in virtù del lavoro di ricerca compiuto da Curci circa le responsabilità profonde dei singoli individui che si sono resi complici del potere, anche contro i propri consanguinei, vittime del nazismo.
Egli, giornalista in pensione, è infatti autore di Via San Niccolò 30 . Nel libro racconta la vicenda di un ebreo delatore per denaro di altri ebrei.
Per aver messo in luce le colpe esistenti – ahi noi!- anche tra coloro che furono vittime, lo scrittore ha subito l’ostracismo della comunità ebraica, il silenzio e l’ostilità dei vari enturages triestini.
Tre ordini di fanatici- ebrei, storici e ‘Sabiani’- hanno fatto muro contro il libro di Curci, per oscurare una ricerca documentata e seria sulle colpe del passato, arrivando a diffidare dalla pubblicazione.
Mi viene da pensare che misconoscimento e rifiuto dell’accaduto, hanno trovato sfogo violento nelle pressioni attuate contro l’autore che ha avuto l’ardire di dare voce alla verità storica.
Tale violenza sembra avere a che fare con il timore che qualcuno possa dire: ‘ben gli sta, agli ebrei, dato che anche tra loro ci furono delatori, criminali, persone interessate al denaro e al potere fino al punto di far sterminare i propri simili’. E per questo si preferisce cancellare la parte della Storia che risulta scomoda.
In particolare Curci è stato attaccato dal giro di appassionati di Umberto Saba.
Dei due ‘grandi’ scrittori triestini[10] Saba è il poeta che ha diviso l’opinione pubblica, avendo fatto discutere per alcune ambigue considerazioni sulla stessa figura di Hitler; ciononostante è stato amato da molti ebrei triestini che nella libreria antiquaria di via San Niccolò 30, a lui un tempo appartenuta, coltivano ancora oggi il culto del suo nome
Lo scrittore ricorda che una cosa analoga era accaduta ad un rabbino (abitante, guarda caso, in via San Niccolò 30) che nel 1946 si era convertito. Era divenuto ‘l’innominato’, il ‘traditore’.
La comunità ebraica non poteva riconoscere le libertà di pensiero.
Non importava che la conversione, il cambiamento, fosse avvenuto dopo la fase delle deportazioni e la fine della guerra e non fosse dipeso da calcoli opportunistici.
Per fortuna– conclude Roberto Curci – conosco almeno una ebrea che vive in Israele e che riesce ad esprime un lucido giudizio su quanto avviene in quel Paese, affermando: “Qui in Israele c’è uno stato fascista”. E dimostra che con onestà intellettuale si può esprimere analisi politica senza subire il peso della lobbie ebraica che rifiuta di giudicare e condannare le responsabilità dei singoli e dei governi.
Al di là della vicenda del suo libro, è di Trieste che ci parla Roberto Curci.
Secondo lui la città è bloccata nell’immobilismo nostalgico della felix Austria, sentimento che, tuttavia, viene a perdersi nelle nuove generazioni, distrattÈe e smemorate, senza che si sia venuta chiarendo la natura della Trieste reale.
– Trieste è sempre un bel rebus – ci dice. – Un crogiolo? No, perché i vari elementi non si sono mai fusi. Ci sono stati meticciamenti di ogni sorta, eppure sopravvive un senso di superiorità del ‘triestino verace’, che considera gli altri maledetti: sciavi, ‘taliani, esuli. Stranieri.
A Trieste esistono varie comunità: serba, cinese, albanese e così via ma sono enclave separate. Grande è la freddezza nei rapporti sociali e umani. Ci sono conventicole e salotti buoni, chiusi. L’ospitalità non esiste. – Al massimo ci si saluta con un ‘ ci vediamo’. Stop. – Oppure un saluto sbrigativo e indifferente con due parole: “Appena starai meglio, verrò a trovarti”, detto da un conoscente ad un amico malato incontrato frettolosamente. Finito lì.
Per non dire di quando si registra addirittura l’imbarazzo nel rivolgere un saluto!
Curci riassume il tutto in una sorta di giudizio:
– La redenzione dagli austriaci ha prodotto un disastro economico, umano e sociale; la seconda redenzione, quella dopo la seconda guerra mondiale, ancora più tragico, deludente.-
Ricorda che nei quaranta giorni di occupazione jugoslava, dopo le tragedie causate dai nazisti, sono succedute ulteriori tragedie e Trieste fu sempre rivendicata dal 1946 fino al ‘54, quando fu decisa la sua sorte.
Un tempo ormai lontano, gli ‘stranieri’ – turchi, greci, ebrei – arrivati a fine ottocento, inseriti in nome degli affari ( ‘regnicoli’ o maledetti italiani che fossero), parlavano il dialetto triestino ed erano integrati; quando iniziò il secolo dei nazionalismi, vennero dispersi, cacciati.
Conservano memoria della loro esistenza i palazzi rimasti e i cimiteri con i nomi diversi sulle lapidi delle tombe: – L’aldilà è multietnico. – commenta Curci.
Poi è tempo di salutarci. Torniamo a immergerci nelle strade bagnate, con la bora che rovescia gli ombrelli, accompagnati dall’amarezza e dalla sobria intensità delle parole espresse dal nostro ospite al Caffè Tommaseo di Trieste.
È stato come toccare con mano una solitudine culturale, unita al bisogno/ denuncia di una politica che non c’è.
Nonostante la pioggia, facciamo una rapida puntatina in via San Niccolò 30 per scattare una fotografia della libreria antiquaria. Che troviamo però chiusa, con le serrande abbassate.
***
La fine della mattinata prevede la visita alla Risiera di San Sabba.
Non è la prima volta che visito questo luogo, ma come in passato, anche oggi mi pare di sentire le voci e i pianti repressi di chi vi fu costretto.
Le alte mura della fabbrica di pulitura del riso incombono sopra di noi; la sala della memoria, con le lapidi ricordo alle pareti, è vuota. Come del resto tutto il sito, fatta eccezione per noi e per sei persone – sei in tutto: un gruppetto di quattro e due giovani da soli –
Come se Trieste volesse espungere dalla sua storia l’infamia perpetrata in passato.
Seguiamo nella esposizione museale la ricostruzione dei processi provando un po’ di fierezza nel vedere il volto, allora giovane (era il 1976) di Sandro Canestrini a cui si deve il merito di aver condotto in porto l’assise di condanna. Altrimenti la rimozione sarebbe stata totale.
Ci fermiamo ad ascoltare nei video le testimonianze dei sopravvissuti, interpellati dai giudici e dall’avvocato trentino. Le voci dei testimoni sono davvero commoventi.
Mi fermo ad apporre una firma, con l’aggiunta di un moto di sdegno: “Infamia italiana”. Perché così è stato!
Eppure poi mi autocritico: viviamo un tempo in cui il pericoloso risorgere dei sovranismi piega l’uso delle parole in modo strumentale.
Per questo, forse, la sottolineatura di una italianità fascista e concentrazionaria ancorché storicamente provata (che nel dopoguerra si è voluto far dimenticare) – e sottolineo ‘forse’ – potrebbe venire utilizzato per accrescere altro odio sulla base delle identità nazionali (nazionaliste) che ri-esplodono.
Finita la visita alla Risiera, salutiamo Gabriella che deve rientrare in treno a Trento.
Capodistria/Coper
Poi il viaggio prosegue verso Capodistria, dove ci attende Stefano Lusa, storico, giornalista radiofonico, corrispondente di Osservatorio Balcani e Caucaso dalla Slovenia.
La sua cortesia è pari all’erudizione che non trasmette una fredda conoscenza, bensì un racconto denso di intelligente umanità.
Entrati nel centro storico- un piccolo gioiello che contrasta con la periferia moderna e industrializzata – nel giardino di un bar, sotto una pergola, seguiamo la sua riflessione sulle varie giornate del ricordo istituite dalla Slovenia, dopo la recente guerra balcanica. Giornate in cui si ribadisce il dolore e il rimpianto di ciò che è andato perduto:
-Gli Sloveni si sono sempre percepiti come vittime; hanno ‘pagato il conto’ con l’esclusione da Trieste e da Monfalcone di circa 140 mila persone, cacciate dai ‘barbari’ dalla costa dove gli Sloveni del Carso incontravano il mare. I Croati hanno invece mantenuto tutto il loro territorio.
Stefano Lusa ci evidenzia che in queste terre risulta forte il senso del dittico: Il passato che non passa. Le celebrazioni affermano sempre e solo il proprio dolore per il mancato collegamento del litorale istriano alla madre patria. Il dolore degli altri è taciuto.
La storia diventa il pretesto per la politica.
In tutti gli anni novanta, i rapporti tra Italia e Slovenia sono stati negativi (per i beni ‘abbandonati’ dagli esuli, per il timore che gli italiani comprassero gli immobili prima proprietà di sloveni).
Oggi il contenzioso è soprattutto per il confine con la Croazia, con l’intenzione di preparare l’esercito in vista della necessità di difendere l’arbitrato relativo alla definizione dei confini.
Il tutto è complicato da uno scandalo sulle intercettazioni, per cui la questione è in sospeso.
Crescono i sentimenti di sfiducia e l’antipolitica: della serie: ‘si stava meglio prima, quando si stava peggio.’ La corruzione è dilagante.
Negli anni settanta e ottanta la Slovenia si è ridefinita come parte della famiglia centroeuropea e non di quella balcanica, dato che gli Sloveni, come i Triestini, hanno in comune un mito asburgico.
Dopo il 1 maggio 2004, con l’ingresso in UE, che ha rafforzato i cittadini sloveni, rispetto agli altri, definibili genericamente come iugoslavi, tuttavia è iniziata una inversione di tendenza per la quale, attraverso la musica Folk, si è riscoperta anche la tradizione balcanica.
Esistono varie Slovenie: una proiettata all’estero (i corsi Erasmus come tramite culturale) e una chiusa, gelosa delle tradizioni. Questa parte afferma che il nazionalismo sloveno è- ed è stato – solo difensivo. Quindi ‘giustificato’.
Secondo Lusa, il problema della nuova immigrazione oggi è una questione di ordine pubblico col
rispetto formale degli accordi di Schengen.
Negli anni recenti è avvenuto il trasferimento veloce dei profughi della rotta balcanica – l’ondata di arrivi della classe siriana benestante e colta – verso i confini austriaci.
Poi si sono propagati i muri e i reticolati e l’UE se ne è lavata le mani. Il trattato voluto da Angela Merkel con la Turchia ha fermato la rotta balcanica. Ora capita la stessa cosa con la Libia.
La preoccupazione per quanto accade ci accomuna e ci porta a riflettere sui temi della giustizia, dei diritti e della democrazia.
Stefano Lusa riassume brevemente un nodo: nell’est dell’Europa ci si trova davanti alla dittatura della maggioranza, senza bilanciamenti dei poteri. Eppure gli interessi di chi è nel mondo del lavoro dovrebbero prevedere dei bilanciamenti e una regolazione europea che impedisca tracolli di diritti. Ma i Paesi non vogliono perdere la loro sovranità. Tutto, invece, andrebbe rivisto.
Fiume/Rijeka
Nel tardo pomeriggio di venerdì 15 settembre 2017, salutiamo Stefano e Capodistria, dopo aver passeggiato per le strade dell’antico centro, respirando aria italiana mescolata a quella slovena, osservando scorci di abitati e stradine che sembrano copiate da cartoline veneziane.
Poi rimettiamo in moto, diretti a Fiume / Rjeka, per conoscere Giacomo Scotti, scrittore e giornalista.
Napoletano di origine, emigrato in Croazia a seguito del fratello che l’aveva preceduto. Vi rimane sposando poi una ungherese e insieme hanno numerosi figli, sparsi per le terre d’Europa.
Uno di essi – ci racconta – ha sposato una finlandese e vive lontano.
Un altro invece, assai ‘sloveno’ vive in Croazia. I nipotini sono il meraviglioso frutto di una ibridazione plurima: e ne è fiero.
La conversazione con lui si prefigge lo scopo di passare in rassegna il dolore lungo il confine del Ventesimo secolo dato che lui, grande amico di Predrag Matvejievic, ha davvero riflettuto e scritto ampiamente sul tema, specie a proposito del gulag titino di Goli Otok.
Ecco, appunto. Goli Otok, l’ultima meta del nostro viaggio.
Che non potremo raggiungere, dato il tempo piovoso e burrascoso di questi ultimi due giorni che ha reso proibitivo l’imbarco sul gommone che da Baska avrebbe dovuto condurci sull’Isola Calva.
Già ne siamo informati in base ai contatti con il nostro amico ‘traghettatorÈ, che al telefono ci ha allertati. “Da Baska si vede il Velebit coperto, a ricordare che la superiore autorità dei fenomeni atmosferici e del mare mosso, decide e muta i programmi.”
Giacomo Scotti, dunque. Lo incontriamo al bar ‘Mornar’, il Marinaio, al porto di Fiume.
Un signore di ottantanove anni che si muove arzillo come un giovanotto, con una memoria vivida e una vivacità intellettuale non comune. Subito mi vien fatto di paragonarlo a Boris Pahor, sia per la statura, sia per la vitalità. E mi riesce – naturalmente – simpatico.
È uno ‘scrittore scomodo’, dato che ha messo in chiaro alcune verità relative alle foibe e alle responsabilità italiane oltre che jugoslave; ha combattuto la retorica e, per questo, anni fa ha subito due attentati da parte degli ustascia che al telefono lo hanno più volte minacciato: “Ehi tu, cetnico, perché non vai nel tuo Paese?”
Di questo all’epoca aveva informato Fassino, ministro degli esteri.
Ci racconta che, dopo il suo intervento, le telefonate erano cessate, con chiara dimostrazione dei coinvolgimenti delle autorità locali. In seguito, per ritorsione, fu estromesso da qualunque associazione, posto ai margini.
Non solo in Croazia subì pressioni; accadde anche in Italia dove alcuni grossi papaveri della destra lo avevano preso di mira.
Il controverso dibattito sulle foibe, con lo schieramento ‘fanatico’ delle ragioni contrapposte continua a dividere e appare difficile l’accoglimento della verità dei fatti e delle responsabilità di tutti i soggetti coinvolti, ad iniziare dai fascisti italiani. Chi commemora i morti per mano fascista, sottace quelli per mano comunista e viceversa. In una ridda di mistificazioni e di rimozioni.
***
In particolare Giacomo Scotti è uno studioso delle contraddizioni del Novecento che hanno visto tragedie seguite da altre tragedie. Specie per quanto concerne il campo di Goli Otok, sul quale ha compiuto molti studi e un’accurata ricerca storica.
Ci dice subito che si è trattato di misure ‘staliniste’ adottate da Tito contro gli stalinisti, i quali – già ne avevamo parlato a Monfalcone – non potevano immaginare che il loro modo di pensare la società socialista sarebbe divenuto motivo di sterminio, così come Stalin aveva peraltro attuato nei gulag contro i dissidenti.
Un contorcimento generale della storia, di un’ideologia che si era rivoltata contro gli stessi aderenti.
Se dei condannati sopravvissuti venivano rilasciati -gli scheletri viventi – subivano l’imposizione del silenzio, pena le ritorsioni sulle famiglie, con parenti incarcerati in due luoghi funestamente noti (S. Gregorio e vicino a Zara)
Circa i numeri, Scotti indica la cifra di sedicimila e dice che le famiglie avevano patito quanto o anche più dei prigionieri. Le donne rimaste a casa dovevano fare le spazzine, lavorare nelle miniere di bauxite (l’oro rosso di Rovigno) o togliere la ruggine dalle fiancate delle navi.
I condannati dovevano eseguire dei lavori socialmente utili. Chi insisteva a non rivedersi e non accettava di rinunciare alle proprie idee e convinzioni, diventava “bimotore”, ovvero era condannato ad un altro anno di lavoro.
Al momento dello smantellamento del campo di Goli Otok, nessuno più doveva parlare dell’esistenza di esso.
E Soheila commenta che la dizione di lavoro socialmente utile rimane a tutt’oggi usata per gli immigrati in attesa di permesso di soggiorno, (africani sub sahariani) cui si chiede di fare lavori socialmente utili: un modo educato per definire obblighi, senza verificare le competenze delle persone e le loro possibilità di concorrere davvero alla vita sociale.
Nell’opinione pubblica nostrana l’obbligo di far loro svolgere un lavoro è bene accolto, come se fosse una specie di risarcimento per la nostra ‘accoglienza’ (poco gradita).
Sembra che prevalga una sorta di rivalsa, acida, quasi punitiva verso chi arriva a turbare l’ordinaria quiete.
Con il decreto Minniti se un richiedente asilo rifiuta di eseguire tali lavori socialmente utili, viene escluso dal piano di accoglienza e dal diritto d’asilo. Ciò contribuisce a creare un immaginario negativo, sbagliato, col consenso di molti, dato che dà fastidio l’idea dell’arabo orgoglioso di sé, che non accetta sottomissioni.
La riflessione di Soheila, frutto di esperienza diretta, ha messo in collegamento due contesti distanti – nel tempo e nei contesti – suggerendo una riflessione sul linguaggio e sui contenuti delle parole.
Tornando alla Jugoslavia, Scotti prosegue dicendo che, nonostante la difficoltà ad ammettere il disastro dei campi di lavoro e di morte, Tito con la scelta di ‘guidarÈ i paesi non allineati ha comunque assicurato margini di autonomia in Jugoslavia, garantendo servizi di qualità (sanitario, istruzione, trasporti gratuiti, treni, navi e aerei per 15 giorni di ferie pagate ecc).
-Tanto che – ci dice– la Svizzera senza i medici jugoslavi non avrebbe avuto i medici migliori.-
E lamenta: –Oggi tutto questo non c’è. Tutti i servizi sono a pagamento. Da qui deriva una certa nostalgia.-
Egli afferma che non è il caso di guardare solo al periodo 1947-’53. Per un giudizio storicamente corretto si dovrebbe tener conto anche degli altri quarant’anni e degli aspetti positivi della guida di Tito della Jugoslavia.
Poi, ripercorrendo le fasi storiche, ricorda che nel periodo in cui Tito ha aperto le frontiere, si è rafforzato il diritto alla secessione.
Da qui la nostra domanda: come mai, poi, è seguita la tragedia degli anni novanta? A cui risponde raccontando che, dopo il maggio 1981, con la morte di Tito, si aprì un decennio di ‘preparazionÈ massmediatica, con rivalità fortissime interne alla nomenclatura.
Al potere c’erano i comunisti con la tessera assunta esclusivamente allo scopo di fare carriera, che avevano perfino perso la memoria dei partigiani di un tempo.
Si sono così sedimentati i grumi di rancore e odio che hanno portato alla guerra, con un apporto dello zampino americano, ma non solo. È esploso ciò che covava da sempre: il nazionalismo tra croati e serbi. C’erano 23 milioni di abitanti e 1,3 milioni erano i matrimoni misti. In quegli anni sono rientrati i cetnici, e quanti altri se n’erano usciti.
-Il cancro sta nel fatto che non hanno mai dato la possibilità di ricambio generazionale.- aggiunge.
Francesco avanza l’ipotesi che se avessero dato il potere ai comuni, forse si sarebbero introdotti dal basso dei meccanismi di auto immunizzazione dallo scontro fratricida, evitando l’ubriacatura degli Stati nazione, etnicamente coesi.
A me viene fatto di pensare che la disinvoltura semplificatoria dell’appartenenza etnica dei caporioni di allora, citati da Scotti, in qualche modo richiama analoga scorciatoia applicata oggi all’appartenenza religiosa con strumentalizzazione delle diverse fedi.
Sempre più necessario diventa educare a tenere a bada i rancori e le diffidenze, non attraverso la forza, ma con la comprensione delle ragioni altrui e dei pericoli derivanti da conflitti non gestiti in positivo.
-Il militarismo –prosegue Scotti –ha poi fornito lo strumento per scatenare lo scontro.
Le ideologie hanno prodotto un arcipelago, con mille isole che vanno per conto loro. Io ho seguito gli ideali che si riferiscono all’utopia (come quella del cristianesimo o anche del Corano). E qualcosa dell’utopia, si è comunque affermato (n.d R. Scotti si riferisce a una certa giustizia sociale e alla dignità per le persone) anche se poi si è subita l’aggressività del sistema.-
La stanchezza poi pone fine al dialogo,dando spazio alla ricerca di un albergo per la notte.
Il cielo denso di nubi scure preparava già i tuoni fortissimi che nella notte avrebbero risuonato per un ampio tratto del mare sulla costa di Opatìa dove infine ci attendevano ore di sonno.
***
Il discorso rimasto in sospeso la sera, viene ripreso la mattina seguente, davanti ad una bibita o a un caffè, prima della partenza per il rientro a Trento.
Il sabato mattina Giacomo Scotti ci attende nei pressi della stazione e ci dirigiamo nuovamente al Molnar.
Dopo uno scambio di saluti (e di libri) si cerca di tirare un po’ le somme di quanto detto.
È stato interessante seguire i suoi racconti, ed anche ascoltarlo parlare del prossimo libro in cui egli insieme a Predrag Matvejevic[11] – i due marinai citati in copertina – ritornano sugli eventi che hanno segnato un’epoca storica. Un libro che è anche un doveroso omaggio al grande scrittore suo amico, recentemente scomparso.
Ci sembra di poter convenire, nonostante alcune differenze tra noi ( dovute alle diverse esperienze di vita, di culture e di età) su alcuni temi:
Il Novecento è stato piagato da nazismo, stalinismo, fanatismo. Le parole sono state strumentalizzate in tutti i sensi e sono divenute inservibili. C’è bisogno di rifondare i pensieri.
La difficoltà a innovare sta nel fatto che si vive ‘di rendita’ del pensiero del Settecento e dell’Ottocento, con un’enfasi sulla tecnologia informatica. L’accelerazione impressa dalle tecnologie svuota il tempo, le ere geologiche annullate in pochi giorni nello scioglimento dei ghiacciai.
Il dominio della tecnocrazia rende inani e impossibili gli sforzi di ripensare il futuro: a partire dal senso del limite dello sviluppo.
Lo sviluppo è ancora concepito come l’obiettivo da perseguire, come il ‘paradiso in terra’, vagheggiato a torto.
Ci si deve confrontare con la logica del ‘prima noi’ cercando di smontare gli egoismi insiti in essa e di denunciarne la scarsa lungimiranza, per non dimenticare i drammi del Novecento, secolo da pochi anni concluso ma per niente finito nelle conseguenze e nella portata di problemi irrisolti.
Male perfetto[12]
È questo tuo cielo mutevole
e immutato
il mio male perfetto
intoccabile
non rimediabile.
Nuvole si affollano
intorno
a frotte
poi il nodo si scioglie
e piove
piove …
il cielo piange
le miserie umane.
Ma lo fa senza rancore.
Molto resta da imparare.
Il ritorno
I chilometri di strada asfaltata – grigia come il cielo pieno di nuvoloni – inducono a utilizzare il tempo del tragitto per raccogliere impressioni a caldo.
La prima cosa che pare di dover dire è che si prova un certo rammarico per l’impegno (culturale e in politica), per il lavoro fatto in questi anni, che non è stato raccolto, compreso.
Le persone incontrate durante il viaggio ci sono apparse sostanzialmente prigioniere del loro tempo. Del resto anche noi, lo siamo, pur mentre tentiamo di gettare lo sguardo un po’ oltre.
Qualcuno dice che in fondo non è affatto sbagliato cercare di prendere ciò che di buono c’è stato, sapendo discernere. E Soheila ricorda che le donne afghane si ritagliano del tempo, quasi ritualmente, interi pomeriggi, per fermarsi. “Andiamo da Budda”, dicono. E così cercano di trattenere il positivo.
Razi parte dalla sua esperienza personale e ricorda che un nodo di fondo è costituito dalla propaganda. Che si basa su cinque principi: nascondere la verità e gli interessi, nascondere la storia, fare vittime, ‘diabolizzarÈ l’avversario, difendere le vittime, monopolizzare il dibattito.
L’unico spazio che rimane è quello dell’emergenza. Per questo motivo si è persa la memoria di ciò che è stato e delle responsabilità. Capire questo, in Europa, è molto difficile.
I progetti ‘pensati’, che inducono a riflettere, non vengono valorizzati, non trovano spazio. la burocrazia fagocita ogni cosa. Si interessa di rendicontazioni, di carte, ma non dei contenuti.
Il vero lavoro sta nel pensare a come spendere (rubare, sciupare denaro) e fare in modo che non lo si noti.
Verso le 15.30 siamo nei pressi del confine, in mezzo alle nuvole. Una lunga lentissima fila di macchine segnala l’ottusa tenacia di chi presidia con controlli ‘dimostrativi’ di logiche nazionaliste, la frontiera tra Croazia e Slovenia, nonostante la presenza in UE.
La nebbia sembra mandare in tilt le nozioni di storia e di geografia. Mentre si procede a passo d’uomo sappiamo di inoltrarci tra le doline, nella zona carsica delle foibe.
E ritorna alla mente,come in un film, richiamato dai luoghi, il corteo di morti ammazzati, fatti sparire nei pozzi carsici. Gli odi privati giustificati dagli odi politici.
Soheila commenta che bisogna proprio attraversare il confine per rendersi fisicamente conto della complessità storica di un territorio tanto piccolo e tanto conflittuale. Si deve poter arrivare sulla soglia dei confini, non solo fisici, ma culturali.
Occorre andare in cima alla montagna per vedere cosa c’è oltre, non solo per sapere, ma per vivere.
E Razi aggiunge:
– Quando passo i confini, mi convinco che non esistono due realtà. Non esiste il meglio, fin quando non cadi nel peggio. Nel mezzo, tra catastrofe e miracolo, c’è l’emergenza.
Tra Est e Ovest c’è la catastrofe, perché cerchiamo soluzioni miracolose. Allora si rimane nella terra franca dell’emergenza. Questo vale nella vita individuale e in quella collettiva.
Per evitare ciò, devi muoverti nel meglio, per non precipitare nel peggio. Usare gli interstizi, per abitare le crepe – conclude.
E Michele sorride e rivolto a Razi, commenta: “Se Soheila, come dici tu, è nata di sinistra, tu sei nato socialdemocratico”.- E buddista- aggiunge Francesco.
Poi il discorso si apre ad altre dimensioni.
Il concetto del ‘guardare oltre’ vale anche per capire il limite delle risorse mondiali, così da immaginare un cambio di prospettiva.
– Anche le esperienze più avanzate sono in grave ritardo. Si è fermi a un approccio otto-novecentesco. – rilancia Francesco. – Non basta riciclare rifiuti all’infinito, non basta ridurre il consumo di gasolio. Occorre anche non bruciare il gas in Nigeria e Libia, ma distribuirlo alla gente perché se ne serva senza bruciare alberi e contemporaneamente procedere con forestazioni. Ed è solo un esempio! Non bastano le molte lamentazioni e le analisi dei problemi, servono proposte concrete per uscire dalla logica consumistica e del petrolio.
-Rielaborando il passato, in effetti, non basta porre il problema se non si intende davvero uscire dal quadro consueto.- aggiunge Michele.
La denuncia dell’abuso edilizio – prosegue Francesco – si è ripetuta spesso (si pensi al vecchio film “Le mani sulla città”), ma da sola, non basta. Oggi va invertita la tendenza all’inurbamento in megalopoli riscoprendo ogni territorio, con le caratteristiche specifiche.
Si tratta di porsi il problema di guardare lontano, di andare oltre il già detto.
L’utopia- aggiunge Razi – è un processo. Ogni percorso è razionale, se ci si prefigge un obiettivo. La risposta arriva quando la domanda è giusta.
-Quando si persegue ‘l’utopia concreta’ di Ernst Bloch?- gli chiede Michele.
– Le ideologie fallite del Novecento, forse sono fallite proprio perché non si è costruito una domanda giusta- prosegue Razi, il regista filosofo.- Per questo è necessario avere visioni, più che sogni. Avere desideri e immaginazione. I sogni dipendono da fattori non controllabili e possono trasformarsi in incubi.
I desideri richiedono di avere immaginazione per tentare la via di una loro realizzazione attraverso il ragionamento.
Ed io convengo: la crisi di senso nella nostra società ha a che fare con la perdita del desiderio, tanto che chi ne è consapevole, prova desiderio del desiderio.
In fondo si tratta di chiedersi: quale desiderio abbiamo per questa comunità di oggi, in cui viviamo?
-Fare i conti con la Storia – dice Michele – è complicato, perché la storia è parte di te. Hai paura di uno spazio in cui il tuo percorso esistenziale viene messo in discussione. Molti si rifugiano nello spazio del possibile. Vale per tutte le belle persone incontrate in questo viaggio, ma mi pare che tendano a sottrarsi alla elaborazione di quanto successo. –
-C’è una velatura di delusione nel tuo sguardo- gli dico.
E Michele lo ammette, attribuendo alle persone incontrate l’attenuante dell’età, pur ritenendo che non basti a giustificare una sostanziale staticità del pensiero.
Lo stupore di uno sguardo diverso si è fatto avanti soprattutto quando abbiamo incontrato chi, non provenendo da ambienti culturali omogenei al nostro, ha mostrato di seguire delle piste di ricerca comunque simili, non paghe della quieta adesione allo status quo.
Epilogo conclusivo del viaggio tra le pagine di un libro.
Al rientro, dopo aver dormito una sera a Opatia, vicino a Volosca, avendo visto o intravisto quei luoghi, mi pare giusto iniziare subito a leggere Processo a Volosca di Franco Vegliani.
Ed è un attimo, sentirsi precipitare nel pozzo del tempo, a inizio Novecento, ed entrare nel cuore dei problemi di cui abbiamo discusso durante questo viaggio.
Nodo centrale della questione?Avere la capacità di sentirsi responsabili del proprio tempo. Interrogarsi scrupolosamente sulle proprie azioni.
Processo a Volosca[13]
Scritto splendidamente da Franco Vegliani (1915- 1982) il libro ruota attorno a un processo a quattro giovani istriani di inizio Novecento, imputati per la morte di due poveri vecchi.
Il protagonista (l’autore?) – soggetto narrante in prima persona – nonostante la differenza di classe, è amico dei quattro ragazzi che, sotto la egemonia carismatica di Boris, compiono atti criminali e rapine. Inesperto e ingenuo, non si rende conto della seconda vita svolta dai quattro, fino a quando non succede il fatto di sangue.
Figlio di un giudice civilista, era entrato in contatto con loro perché si era invaghito di Giovanna, cognata di un sarto, nella cui bottega si trovavano in inverno vuoi per scaldarsi, vuoi per stare insieme.
Chiamato in tribunale a testimoniare, non nega l’amicizia, anche se superficiale, che li aveva uniti, e per un guizzo di dignità si interroga su come mai la sorte lo abbia risparmiato dall’essere sul banco degli imputati insieme agli altri: tutti presi dal fascino di Boris, capo- amico che li condizionava senza che se ne rendessero conto, i tre poveracci Vladko, Vinko e Giorgio- figlio di italiani- , finiscono n carcere, mentre Boris che rivendica con spavalderia e anche coraggio le proprie azioni, viene condannato a morte per fucilazione.
La giovane Giovanna – bella, dalla pelle scura e dai tratti zingareschi- di cui tutti erano in qualche modo innamorati, contatta il figlio del giudice, da lei non corrisposto nei sentimenti, per tentare di intercedere un suo intervento presso il padre al fine di ottenere almeno un ultimo abbraccio di Boris, prima della sua fucilazione.
Ma il ragazzo sa che non è possibile. Prova dolore per l’amore di Giovanna per Boris, ma anche dispiacere per non poterla aiutare. Si sente coinvolto nella vicenda. Si trova sulla soglia tra innocenza e colpevolezza, essendo anch’egli stato loro amico e non avendo sospettato la attività nascosta, non avendo prevenuto la tragica fine.
Giovanna si reca pure dal magistrato del processo per intercedere la possibilità di vedere Boris un’ultima volta, ma non ottiene nulla.
La fucilazione avviene.
Dall’alto della dolina i carabinieri e anche il protagonista, assistono.
Il giovane si interroga sul ruolo della squadra di polizia incaricata di premere il grilletto. Sono in trenta uomini, ma solo 15 hanno il fucile carico. Gli altri sparano a salve: un modo per non doversi sentire responsabili della morte del condannato, anche se il diverso fumo che esce dalla canna del fucile, non permette di ignorare l’effettiva diversità dell’arma.
Il racconto sottolinea la falsa coscienza, la giustificazione assolutoria di cui qualcuno potrebbe avvalersi per allontanare la responsabilità, pur sapendo che in realtà non risulta possibile ignorare il fatto di aver ucciso un uomo.
Il libro mette in luce anche altri aspetti, come le contraddizioni di quella zona, divenuta Italia, in cui i poliziotti venivano inviati dal meridione a compiere il nero compito di boia.
È un romanzo sulla responsabilità, sull’innocenza e la colpa, sul confine che sta tra l’una e l’altra dimensione, specie per chi si trova in Geografie stravolte dai passaggi della Storia, in cui vita e morte sono sospese a un filo, dipendono da un potere che aggredisce, occupa, si ritira, impone.
Ci sono spaccati realistici, con descrizioni che ricreano l’ambiente dell’epoca, come nel caso della morte della sorellina di Vlatko, Nevenka, o Nevia o Neviolina, uccisa dalla tisi; o della morte del padre di Giorgio, con la successiva emigrazione del figlio maggiore, Ottavio, su una nave diretta in Australia, salutato dalla madre in un severo dolore trattenuto. O anche nel caso della visita al bordello – le ‘case’ senza altro appellativo. Le ‘case’ in cui appaiono le varie figure di donna, in un clima di rassegnata miseria, di sottomissione ad un destino che non ammette riscatto.
Le ‘case’, dove ci si rivolge con la ovvia giustificazione: “Quando si è lontani viene la malinconia. Bisogna fare qualcosa.” (p. 100) e il giovane accompagna i militi del drappello venuti per compiere l’esecuzione: “Vi posso accompagnare’ mi offersi. Fu un’idea improvvisa, una curiosità più forte e più cattiva delle altre” (p. 100)
L’introspezione è costante, il giovane sottopone se stesso ad un’analisi sul senso del proprio agire e sulle pulsioni, anche egoistiche, di chi annaspa. Anch’egli, piuttosto che rimanere solo, ha accettato il contatto con militi che non stima, al solo scopo di poter venire a sapere da loro quando e come sarebbe stato ucciso Boris, il condannato. E non si considera innocente.
Ha provato il bisogno di assistere, un po’ per morbosa curiosità, un po’ per autopunirsi ritenendosi in qualche modo colpevole, se non altro perché il puro caso l’aveva estromesso dall’affare criminoso risoltosi con la tragedia. Non era sicuro che, nel caso fosse stato coinvolto, sarebbe stato capace di sottrarsi rifiutando di far parte del gruppo.
Nel racconto si viene a respirare l’indifferenza con cui si parlava del momento dell’esecuzione – la “cosa” che sarebbe accaduta – disumanizzando totalmente l’evento.
Era un tempo in cui nessuna pietà veniva concessa o considerata essenziale alla dignità umana.
Un tempo in cui ci si sarebbe dovuti chiedere: “quale purezza manca a chi non arrivò a quei delitti, quale intelligenza delle cose? E che materia è quella di cui è fatta tale purezza e tale intelligenza’”
Strana scalata è questa
salita in solitaria,
in gara con il tempo.
Come si fa
a lasciarlo scorrere
goccia a goccia?
come può l’ortensia
tagliata dalla pianta
risollevare la testa
se il sole batte
e i petali
soffrono l’arsura?
Come puoi contare
i minuti andati vuoti
di amici perduti lontano
nel sacco dei giorni
di polvere assai rivestiti?
Ti cimenti e ascolti
ti metti alla prova
e senti le voci
nel silenzio della mente
sempre più flebili
così da svanire piano piano
senza più colore alcuno.
Vietato incespicare
sul sentiero ostile:
chi si ferma è perduto.
È accaduto e ancora accade.
Da cieli spaesati
orfani di Giove
si scatenano venti
e tempeste
sui fili d’erba dei prati.
Scossi dal vento
percossi, spazzati, spezzati
a fatica riprendono fiato.
… e la speranza non muore.
4 ottobre 2017
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1. Micaela Bertoldi, Inversi, raccolta inedita
2. Silvio Trentin, 1885-1944, esule antifascista, giurista, protagonista della resistenza,
3. Razi Mohebi, regista afghano, vincitore del Premio Mutti , 2014 per il film “Cittadini del nulla”; Soheila Javaheri, regista iraniana, Video Editor at Razi Film House
4. Micaela Bertoldi, Inversi, raccolta inedita
5. Ronchi: Stato, Italia, Regione, Friuli-Venezia Giulia, Provincia, Gorizia. Lingue: italiano, sloveno, veneto. L’origini del nome sono documentate fin dal 1229, nella forma Ronches (pl. friulano di Ronco, terreno coltivato). Situata nella zona dialettale della Bisicaria, fra il Carso e l’Adriatico, fu territorio colonizzato dai Romani come dimostra una necropoli scoperta accanto all’aeroporto. Posta in un crocevia, fu un luogo strategico per la difesa di Aquileia (vi transitava la via Gemina). La sua storia fu travagliata da frequenti incursioni delle popolazioni dell’est, ungari (X secolo) e turchi (XV secolo) e in seguito da contese tra Asburgo e Repubblica di Venezia, da ripetuti passaggi di mano e dall’appartenenza all’Impero austro ungarico dopo la caduta di Napoleone.
6. Voluto da Massimiliano d’Asburgo, da lui mai abitato, non avendo fatto ritorno dal Messico dopo la rivolta contro il suo potere di Imperatore.
7. Natzweiler- Struthof sui Vosgi di cui ha scritto in Necropoli, oltre che nella sua numerosa produzione letteraria, tradotta in tutte le lingue
8. Micaela Bertoldi, Inversi, raccolta inedita
9. Marino Sinibaldi, Fahrenheit Rai 3
10. Umberto Saba (Trieste 1883- Gorizia 1957) Italo Svevo- pseudonimo di Aron Hector Schmitz – (Trieste 1861- Motta di Livenza 1928)
11. Predrag Matvejevic, Mostar, 1932- Zagabria, 2 febbraio 2017, di padre russo, madre croata, grande cantore del Mediterraneo, professore all’Università di Zagabria, alla Sorbona di Parigi, alla Sapienza di Roma
12. Micaela Bertoldi, Inversi, raccolta inedita
13. Franco Vegliani, Processo a Volosca, Palermo, Sellerio, 1989)
14. Micaela Bertoldi, Inversi, raccolta inedita