Natura che ignora i confini e si ribella alle prepotenze umane
di Micaela Bertoldi
Alberi con i piedi per aria
tronchi schiantati,
riversi
su pendii privati di chiome
alopecia di monti feriti.
Mortificato,
lo sguardo sorvola
i cimiteri tristi dove natura
giace sconfitta.
Alberi e sogni sono caduti.
Smarriti e soli. Silenti.
Di sconfitte e sogni, abbiamo parlato nel decimo itinerario del “Viaggio nella solitudine della politica”, incontrando persone addolorate per gli eventi catastrofici che si sono riversati sui territori Dolomitici e delle Alpi Carniche lo scorso 29 ottobre: un nuovo limes che la ribellione della natura ci sottopone attraverso il lamento della montagna e di chi ci vive.
Sindaci e amministratori locali, rappresentanti delle Proprietà collettive e delle Comunità di Regola, lo Scario della Magnifica Comunità di Fiemme, i responsabili dei servizi forestali provinciali, regionali, demaniali delle province di Belluno, di Udine e di Trento, rappresentanti di associazioni ambientaliste o cooperative che operano nel settore legno: in ogni incontro abbiamo parlato con cittadini preoccupati non solo per come si affronta il presente – con le opere di primo rimedio ai guasti franosi, con la pulizia di ettari di bosco devastati, con il ripristino della viabilità – ma anche e soprattutto sugli scenari oltre l’emergenza che investono il tema cruciale della montagna.
E poi l’assenza di coordinamento fra le diverse regioni colpite (Trentino, Alto Adige – Sud Tirolo, Veneto e Friuli Venezia Giulia), quasi che gli eventi non avessero a che fare con il manifestarsi di un cambiamento climatico rispetto al quale, proprio per il loro carattere inedito, nessuno – malgrado le diverse condizioni – può fare da sé.
La consapevolezza di quanto si stia sottovalutando la portata degli eventi connessi con le trasformazioni climatiche è stata infatti il filo conduttore di ogni nostro ragionamento, peraltro calandosi negli aspetti specifici dei problemi di ciascuna comunità, rilevando somiglianze e differenze, nella constatazione delle relazioni e dell’interdipendenza tra montagna e pianura.
Sono state rilevate le somiglianze nei problemi concreti, quali la possibilità di avvicinamento alle zone pericolose dei pendii esposti in altezza, la carenza di macchinari e di lavoratori esperti, professionalmente preparati, la mancanza di copertura assicurativa per i tanti volontari che hanno offerto il primo soccorso per liberare vie di accesso e ripristinare le comunicazioni tra gli abitati delle terre alte. Somiglianze riguardanti problematiche quali la ricerca di mercato sufficientemente remunerativo per il legname allestito, la concorrenza tra diversi soggetti locali per assicurarsi una migliore offerta e l’incapacità di coordinamento locale e sovra-regionale, nonostante il pericolo di speculazione sul prezzo di vendita.
Le differenze principali, specie tra realtà veneta e trentina, sono state segnalate a proposito dell’accesso alle risorse finanziarie a causa del diverso assetto istituzionale e amministrativo, aggravato dalla sciagurata riforma che ha delegittimato e svuotato di competenze e mezzi le Province.
Quella di Belluno in primo luogo, che si trova ad essere del tutto subordinata alle scelte miopi della Regione Veneto, disattenta ai bisogni della montagna che concepisce come una cartolina per il richiamo turistico, incurante di sostenere l’economia a partire dalla filiera del legno: dal prelievo, alla lavorazione, alla produzione di manufatti, alla vendita, alla produzione di energia… Solitudine avvertita dai Sindaci dei territori di montagna rispetto ad una Regione che non vuole assumere come propria la cultura della montagna.
Il primo problema da affrontare – ci dicono – non è la ricostruzione del bosco tout court, bensì la messa in sicurezza: se torna a nevicare, il rischio di valanghe e frane su case, scuole, alberghi, abitati in genere si fa ancora più grande. Occorre sapere che il modo di fare fronte a rischi valanghivi è diverso zona per zona. I siti stradali, i pendii sono diversi ed esigono risposte diversificate.
In Veneto l’onere di intervenire è stato delegato dal Commissario regionale ai Sindaci, ma non sono stati specificati strumenti e collaborazioni. L’approccio che la Regione ha assunto verso il disastro di ottobre – ci dice Ivan Minella, responsabile in materia di Patrimonio e Innovazione tecnologica della Provincia di Belluno – è quello dell’emergenza fito-sanitaria. In questo senso è stata impartita una direttiva che impone di asportare tutto il legname abbattuto entro settembre 2019 senza peraltro assicurare le risorse necessarie: come se bastasse un diktat ultimativo ad assicurare il risultato.
Approccio emergenziale che emerge anche dalla decisione della Regione di acquistare e installare paramassi e paravalanghe, indistintamente, senza accurata verifica luogo per luogo di che cosa davvero serva, e procedendo anche all’acquisto di piantine su larga scala – un business redditizio per qualcuno – per riforestare in maniera artificiale e non in base a metodologia naturalistica secondo il moderno approccio della scienza forestale. Non sono state emanate linee guida per rimuovere i materiali, né forniti tecnici competenti: un piccolo comune non dispone certo di personale specializzato.
Ci sono versanti inaccessibili dai quali si dovrebbero spostare ceppaie abbarbicate e insicure, e servono attrezzature adatte, mezzi meccanici costosi, soluzioni tecniche di messa in sicurezza a seconda della necessità, ma non si vedono finanziamenti adeguati.
Pianificazione e ruolo delle comunità locali
Nel bellunese l’indeterminatezza delle responsabilità ha fatto perdere mesi preziosi ed ora c’è la fretta di intervenire per evitare il deprezzamento del legname sul mercato, data l’abbondanza dell’offerta.
Si avverte tutto il peso di una mancata pianificazione coordinata tra i diversi soggetti interessati: Enti locali, Provincia, Regione, Comunità di Regole, proprietari privati dei boschi, Demanio forestale. “Servirebbe un Piano di riassetto forestale”, con norme e indicazioni circa gli ettari di prelievo possibile in futuro, zona per zona.
Nell’Agordino e nell’Ampezzano – ha detto Paolo Frena, sindaco di Colle Santa Lucia, piccolo paese ladino di 360 abitanti situato sul limitare della Riserva naturale del Giau – è il volontariato che spesso copre i vuoti dell’Amministrazione, pur in assenza di adeguato riconoscimento e di copertura assicurativa. Eppure si tratta delle vere forze in grado di conoscere il territorio. Nelle operazioni difficili e pericolose, a fare la differenza spesso è proprio la conoscenza diretta dei luoghi e della loro natura.
Vigili del fuoco volontari, regolani, contadini di montagna insieme hanno affrontato l’immediatezza del disastro. Ora però devono essere sostenuti, altrimenti nei prossimi anni sarà difficile contrastare l’ulteriore spopolamento della montagna e trovare “almeno un motivo” per fermarcisi a vivere. E’ per questo che occorre riflettere sulla visione generale, provando anche a sviluppare progetti ambientali e culturali, come ad esempio la valorizzazione delle vecchie miniere del Fursil di Colle Santa Lucia, piuttosto che l’apertura di una stalla o di imprese di lavorazione del legno in loco.
Parole che confermano le sensazioni da noi provate durante la passeggiata nel borgo, tra ghiaccio e neve alta ai bordi delle stradine: nello scenario splendido delle montagne, il piccolo nucleo abbarbicato in alto evoca le storie di quanti in passato vi hanno abitato, la durezza del vivere, la bellezza del paesaggio. Oltrepassata Casa de Jan, sede dell’Istituto Ladino di cultura con le sue antiche inferriate ai balconi, colpisce il fascino della chiesa posta su una terrazza esposta verso i monti, il suo cimitero con le tombe ricoperte da una coltre spessa di neve a sentinella verso ingerenze predatorie esterne, una sorta di memento vobis circa gli esiti del futuro, specie di fronte all’umana dissennatezza.
Necessità di lungimiranza, domande e passione civica
Nell’immediato, l’asportazione del legname a terra, risulta importante, da farsi in breve tempo, onde prevenire l’emergenza fitosanitaria, dato che il bostrico non conosce confini e, con l’arrivo di temperature primaverili, dai tronchi piegati si svilupperà l’aggressore principale che attaccherà le piante ancora in piedi: occorre quindi salvare in tempo il patrimonio boschivo restante, assicurando un coordinamento tempestivo per l’offerta sul mercato del legname allestito, cioè già ripulito, scorzato e predisposto per essere acquistato e destinato alla lavorazione.
Lungimiranza vorrebbe che tali operazioni di recupero e vendita del legname non fossero sbrigativamente appaltate a imprese estere, austriache e svizzere, pur sapendo che sono attualmente meglio organizzate in tal senso. Si dovrebbe procedere con sostegno di mezzi tecnici, macchinari adatti, con supporti formativi da parte di professionisti in modo da favorire una programmazione degli interventi, capace di unire la rapidità della prima risposta per mettere al sicuro la risorsa legno, ma anche di pianificarne il deposito, la conservazione, la vendita o l’eventuale lavorazione sul posto, cercando così di evitare il deprezzamento di una risorsa il cui prelievo normalmente costituisce uno dei principali proventi per le amministrazioni comunali e gli usi civici. Proventi che verranno altrimenti a mancare, dato che in una notte sono stati messi fuori gioco alberi, e quindi risorse relative ad almeno quindici anni di prelievo.
Ma la Regione Veneto considera le Dolomiti come i monti di Venezia e alla logica del turismo di massa riconduce anche l’ottica dell’intervento sulla montagna, luogo di vacanze per la pianura, per gli sport del tempo libero, ignorando nella sostanza le necessità di chi in montagna ci vive, di chi ha bisogno di servizi, di risposte lavorative, di motivazioni per rimanere nei territori in altura, isolati, periferici, in via di spopolamento e di invecchiamento.
In questo scenario cerca di introdurre altre logiche il BARD, acronimo per “Belluno Autonoma Regione Dolomitica”, proponendo da tempo (si pensi al referendum della provincia di Belluno per l’autonomia) la restituzione di potere decisionale e di governo ai territori stessi, in cui i Comuni vengono oggi sostanzialmente abbandonati al “loro destino”, ovvero lasciati a risolvere problemi immensi senza averne le forze, sia economiche, sia di personale.
In tutti gli incontri avuti, i sindaci di Colle Santa Lucia, di Santo Stefano di Cadore e di San Pietro di Cadore hanno sottolineato come, in occasione del disastro dell’ottobre scorso, hanno dovuto assumersi la responsabilità dei lavori immediati, ricorrendo all’abnegazione dei concittadini, alla generosità volontaria, agendo senza strumenti, sia pratici, sia normativi. Si sono caricati un peso sulle spalle per amore della loro terra, in base alla volontà di non mollare, di continuare a dare senso alla cultura storica delle popolazioni dei luoghi di montagna, unica vera difesa dell’ambiente naturale e della sopravvivenza di fronte a fenomeni climatici destinati a ripetersi a causa del dissesto globale e dalla desertificazione avanzante. Hanno pure evidenziato la speranza che sia possibile utilizzare l’evento negativo per porsi le domande di fondo riguardanti il futuro dell’ambiente montano.
Tornare al punto di partenza: la comunità
Ad Ovaro, in prossimità dell’hotel Aplis, interessante è la visita al Museo del Legno: un luogo dove sono conservati strumenti e documenti sulla cultura del legno, della coltivazione delle foreste, del taglio e della lavorazione del legname. Splendida la Xiloteca, con l’esposizione ordinata di tanti pezzi di legno, ciascuno nominato e presentato nelle caratteristiche specifiche, del colore, della venatura, della corteccia. Un omaggio rispettoso alla natura del bosco.
Se è vero che in Carnia i danni maggiori sono stati causati dal dissesto idrogeologico, è pur vero che gli effetti sul patrimonio boschivo ci sono. Ma “misurano la distanza dal bosco” – ci racconta Luca Nazzi, già presidente del Coordinamento regionale FVG delle proprietà collettive – che si ha nella percezione diffusa. Così le proprietà collettive rimangono spesso sole e inascoltate anche da parte delle istituzioni di riferimento che negli anni hanno utilizzato il bene comune prevalentemente come cassa cui attingere. Così – è l’amaro commento – non ci resta che fare da soli.
Emilio Gottardo, presidente della cooperativa Legno Servizi di Tolmezzo, nell’interessante incontro di sabato mattina, mette subito il dito nella piaga: qui – afferma – “ci si è affidati unicamente a politiche di risarcimento”. Dunque all’emergenza, ma anche su questo piano ci si sarebbe dovuti muovere ben diversamente come ad esempio definendo da parte della Regione FVG un prezzo minimo di riferimento nella vendita del legname. Il fatto è che anche in questa regione è la pianura a governare la montagna. E la montagna è lontana: poca o nulla è la volontà di ripensare le dinamiche, studiando le mappe storiche per capire dove piantumare e con quali specie.
Franceschino Barazzuti, che dell’ambiente montano ha fatto una ragione della sua lunga vita, esplicita con passione il disagio dovuto “all’essere ‘sazi’ di pensare all’emergenza perché si è perlopiù incapaci di ‘vedere la montagna nel suo complesso”. Bravi nell’emergenza, ma inadeguati a pensare come far vivere la montagna, avendo smarrito la cultura montanara, mentre chi governa pensa di risolvere i problemi centralizzandone la soluzione. Si deve tornare al punto di partenza, la comunità locale. La politica deve mettere nelle condizioni di operare, ma poi sono le comunità che devono gestire le cose. E’ la storia che lo racconta: ad esempio il Comune di Ovaro, costituito da 14 borghi, con dieci acquedotti, insegna che un borgo veniva costruito solo se aveva una sorgente vicina. Come in passato, anche oggi si deve considerare l’acqua un bene comune, di cui il territorio non può essere spogliato, un bene che va gestito, curato in modo da ricavarne benefici, ma anche da mantenere in sicurezza.
Argomento ripreso da Massimo Moretuzzo, consigliere regionale del FVG, che racconta di come in un grande magazzino edile di San Vito al Tagliamento i bancali erano carichi di legname proveniente dalla Bosnia Erzegovina e dalla Serbia (oltretutto contaminati): a dimostrazione della mancanza di una filiera regionale, pure se si stanno sperimentando patti di filiera in altri ambiti, quali l’agricoltura cerealicola e il pane.
Assetto dei territori, modelli silvocolturali, frammentazione
Nella Regione Friuli Venezia Giulia, come anche in Veneto, uno dei problemi specifici riguarda la parcellizzazione della proprietà dei boschi, mentre in Trentino questo aspetto è attenuato dalla vastità delle proprietà collettive.
I vecchi modelli silvocolturali sono da rivisitare. Si deve immaginare il bosco fra quarant’anni, per avere una visione del futuro.
La parcellizzazione riguarda peraltro anche le imprese agricole, che non dispongono di sufficienti superfici per sostenersi. Tale aspetto si ritrova in vari contesti, e riguarda anche le proprietà degli edifici degli antichi centri storici dei piccoli paesi. La cosa vale anche in Trentino, dove l’azione di recupero e ristrutturazione è spesso ostacolata dalla proprietà remote e incerte di singoli edifici, con eredi dispersi per il mondo e spesso irraggiungibili.
Questo insieme di fattori ha a che fare con lo spopolamento dei paesi di montagna, unitamente alle dinamiche macroeconomiche. Da qui la necessità di perseguire un riordino fondiario, una ricomposizione delle terre agricole anche tramite una gestione democratica di tipo cooperativo, e interventi di ristrutturazione e utilizzo di patrimoni edilizi e case vuote e abbandonate.
Occorre ragionare in prospettiva, leggere le dinamiche e indirizzarle, affrontando il declino demografico con la consapevolezza di dovere investire in scuola e formazione – come afferma il forestale filosofo Sandro Cargnelutti, presidente di Legambiente – allo scopo di far nascere “imprenditori di pensiero”.
Rimanere in montagna
Per favorire la possibilità di rimanere in montagna, occorre garantire servizi di prossimità, rispolverare il significato autentico della solidarietà civica, attualizzando gli Usi Civici in base alle necessità contemporanee.
“Chi riaccende la montagna?” – si chiede Giorgio Cavallo, ambientalista e già consigliere regionale del Friuli Venezia Giulia – “Bastano gli animatori locali?”. La montagna friulana è diversa, dura, particolare. Non concede sufficiente reddito da sola agricoltura, da solo turismo e la gente sta in fondovalle con alto pendolarismo per lavoro. Si dovrebbero avviare filiere sulla base di “Patti territoriali” in modo da realizzare distretti ad economia solidale. E in questo contesto potrebbero aprirsi spazi occupazionali interessanti, nella logica della cura del territorio.
Andrebbe studiata una mobilità dolce nelle aree interne, ma anche si dovrebbero riportare nelle zone interne le occasioni di formazione, scuole di eccellenza in grado di attirare e consolidare presenze provenienti da altre zone. Gianluca Niccolini, architetto di origine trentina ma residente a Tolmezzo, riferisce della possibilità di patti collaborativi fra Università, ad esempio con il Politecnico di Milano, ma si sconta una sordità politica e una incapacità di apprezzare nuove prospettive.
Il che ci riporta a quanto emerse qualche mese fa, nel secondo degli itinerari di questo “viaggio” dedicato alle terre alte alpine, quando vennero unite – ci ricorda Michele Nardelli – in un filo conduttore di visione l’Università della Montagna di Edolo in Val Camonica e la “Scuola del ritorno” di Paraloup, in provincia di Cuneo, dove grazie alla Fondazione Nuto Revelli quell’antico borgo ha ripreso vita. Esperienze che ci parlano di una nuova attenzione ma anche della necessità di mettere in dialogo le diverse esperienze che molto spesso nemmeno si conoscono fra loro. In buona sostanza, il tema della vita in montagna è cruciale per il riequilibrio e per un modello di sviluppo sostenibile.
A chiusura dell’incontro il sociologo bellunese Diego Cason ci ricorda con efficacia “il grande inganno in cui si vive, poiché ogni attività produttiva è distruttiva di qualcosa”. La montagna evidenzia il limite e la necessità di fare i conti con l’entropia. C’è un limite allo sviluppo: in passato nelle terre alte si trovavano soluzioni migliori di quanto non si sia in grado di fare oggi. La montagna appare spesso come inciampo, dato che mostra l’inganno della società urbana – che finirà sommersa dalle acque se si va avanti così. Nella confusione delle metropoli, del consumismo in cui bisogni e desideri si mescolano e si annientano, è opportuno riscoprire quali valori sostenere: non come risposta pauperista ai problemi odierni, bensì come una visione che colleghi la questione energetica con quella sociale e quella politica. L’idea di una regione dolomitica in chiave europea.
Val Visdende
Ci rimettiamo in cammino diretti in Val Visdende, nell’alto Cadore, luogo magico che vide le passeggiate solitarie di Karol Wojtyla.
Qui la neve alta cerca di mascherare gli effetti disastrosi di quella notte fra il 29 e il 30 ottobre 2018. Sembra proprio di vederlo il turbine che ha sconquassato i pendii, passando furiosamente da una parte all’altra della Valle. Si possono solo immaginare i boati dovuti agli schianti: una specie di bombardamento durato ore. Così hanno descritto l’evento gli abitanti del posto. E’ singolare vedere, in uno spiazzo a metà costa, alcune baite risparmiate dalla furia della natura.
E la mente si sposta in altro contesto, dove la selettività dell’intervento distruttivo bellico si era “divertita” a bruciare singole abitazioni, qua e là, lasciandone altre del tutto intonse. La terra di Bosnia, gli anni Novanta tornano in mente, di fronte ai versanti montuosi della Val Visdende, chiazzati da ceppaie estirpate, da tronchi ammassati uno sull’altro, con qualche abete che si spinge, altissimo, verso il cielo. Contrasti e mescolanze di pensieri, che migrano altrove fino ad arrivare alle antiche rovine di città greco romane visitate in altri viaggi, ad Efeso, dove le colonne spezzate secoli dopo secoli testimoniano l’ingiuria di mondi stravolti.
In questo quadro di devastazione ritornano tra noi i ripetuti richiami alla necessità di inquadrare gli eventi traumatici di fine ottobre nello squilibrio generale del clima, direttamente collegato con l’azione umana di inquinamento da calore, di rapina di risorse ed uso scellerato dei suoli.
In epoca protostorica – ci ricorda Francesco Prezzi – il Sahel era verde, tanto che in quella parte di Africa settentrionale sono nate grandi civiltà, città come Cartagine o Leptis Magna. Tuttavia lo sviluppo della marineria ha comportato il progressivo abbattimento di piante: per ogni remo di ciascuna nave serviva un tronco, tanto che via via si sono ridotte le foreste dell’Atlante. In seguito molte altre manomissioni della natura, l’aumento del calore e la crescita dell’entropia hanno fatto il resto, fino ad arrivare alle fluttuazioni attuali da un estremo climatico all’altro. La responsabilità di tali fenomeni è in capo alla nostra presunta e presuntuosa “civiltà”.
Il rimedio che la politica e le istituzioni europee e internazionali dovrebbero attuare – oltre evidentemente al cambiamento dell’attuale modello di sviluppo – potrebbe avere un grande aiuto nella realizzazione di una barriera verde che attraversi l’Africa dalla Nigeria all’Etiopia, sostenendo una proposta dell’Unione degli Stati Africani che hanno individuato il possibile contrasto della progressiva desertificazione tramite riforestazione. Soluzione che, tuttavia, sembra ferma o procede a stento. E la questione è urgente, se si vuole fare in tempo.
Sulla via del ritorno, tra luna lucente e linee d’ombra
Poi si riprende la via del ritorno: si passa per Auronzo di Cadore, si scavalca il Passo delle Tre Croci ed ecco Cortina d’Ampezzo. Poi si va verso il Passo Falzarego attraverso strade che si snodano tra montagne possenti, scendendo a Cencenighe, Comune devastato nel 1966 dall’alluvione del 4 novembre. Il Lago di Alleghe sembra un testimone muto, sommerso anch’esso da neve in superficie che a fatica nasconde i detriti che hanno invaso le sue acque. Girando lo sguardo tutt’intorno si vede ovunque la distruzione di boschi della Valle Agordina. C’è una luna quasi perfetta che riluce sopra i monti. Proseguiamo verso Passo Valles ed entriamo nel Parco di Paneveggio, giungendo a Bellamonte.
Strage di alberi
interi eserciti caduti
corpo su corpo riversi
su cui si stagliano linee d’ombra
che altre piante – sopravvissute –
gettano di traverso sui tetti
di piccole case di bambola
stereotipi di forme infantili
cui una coltre di neve sporca
fa da coperta.
Sul marciapiede
una panchina e un tavolo
stanno solitari, in attesa,
rivestiti di neve
come tombe d’inverno.
Lago di Carezza
Dopo un buon sonno, ci dirigiamo in provincia di Bolzano, con meta il bel lago di Carezza, in cui fino a mesi addietro si specchiavano gli abeti. Nel gelo della neve che ha invaso le strade di accesso, si scivola facilmente. Guardinghi, ci avviciniamo per osservare in silenzio rispettoso, le piante cadute, le coste spogliate a chiazze.
Per fortuna la fascia di conifere immediatamente prospiciente lo specchio d’acqua (che ora non si coglie per via della neve) sembra essere ancora in piedi e immaginiamo sia possibile che continui a proiettare il suo verde scuro nel luccichio dell’acqua.
Intorno sembra sia stato allestito un museo di piante morte, con radici all’aria come scheletri di dinosauri portati alla luce, colonne schiantate in dischi massicci abbandonati dal tempo.
Carezza
Nel lago si specchiano – morti –
senza più rami,
i resti di abeti di un tempo che fu.
Difendere la bellezza. Una proposta
Ragionando con Sandro e Livia, gli amici romani che partecipano a questo nostro itinerario, emerge la volontà di avanzare una proposta. Anziché chiedere che la politica metta a disposizione dei privati degli incentivi per la difesa dell’ambiente, come ad esempio per le energie rinnovabili, si dovrebbe capovolgere l’ottica: tocca anche ai cittadini offrire un “incentivo per la tutela” della bellezza. La natura non può essere goduta del tutto spensieratamente, perché si va a sciare, a camminare, dando per scontato che tutto sia dovuto. Occorre contribuire all’esistenza dei luoghi della bellezza, per poterne godere.
In fondo, non sarebbe un grande peso per chi pratica sport e si reca nelle località di montagna: potrebbe essere accettato come tributo alla natura, verso la quale siamo debitori. Si tratta solo di costruire la consapevolezza della importanza di ciò e della possibilità di farsi carico del futuro. Si potrebbe immaginare uno strumento, una credit card alla rovescia, vincolata alla protezione della bellezza dei luoghi, con beneficiari gli Usi civici o le Comunità di Valle, da implementare con un tributo – omaggio da parte di chi quei luoghi attraversa. Sarebbe interessante studiare una possibile traduzione pratica dell’idea.
Poi si riparte. Il Lavazè ci mostra una parte dei danni avvenuti in Trentino, dove per chilometri si estendono ceppaie devastate, intere plaghe rase al suolo. Oltrepassiamo il bel paese di Varena e in un blitz si è a Cavalese dove ci attende la Magnifica Comunità di Fiemme. Ed è lì che si è esplicitata una riflessione importante circa i modi con cui si possono affrontare al meglio le emergenze, ma anche sviluppare dei discorsi per il futuro, in una logica in cui l’autonomia dei territori può evidenziare tutta la sua validità.
Buon governo: in che modo
Nel viaggio emergono le notevoli differenze di contesto riconducibili alla governance e alle risorse finanziarie da destinare alla difesa del territorio. Differenze significative, ad esempio, paragonando la realtà della Provincia Autonoma di Trento a quella di una Regione come il Friuli Venezia Giulia, quella della Provincia Autonoma di Bolzano a quella del Veneto.
Diversità che abbiamo visto ad occhio nudo attraversando le Valle di Fassa e di Fiemme e che emergono con forza nell’incontro di Cavalese dove l’ex assessore provinciale e sindaco Mauro Gilmozzi ci ricorda come per anni dopo la tragedia di Stava la parola d’ordine sia stata “Pianificare, Prevenire, Proteggere”, investendo cento euro per ogni abitante.
L’urto massiccio del 29 ottobre ha divelto migliaia di ettari di bosco, dal Lagorai a Paneveggio, dalla Valle di Fassa al Lavazè, dalla Valfloriana e al passo del Redebus, in quantità di metri cubi perfino superiore alla distruzione avvenuta in Veneto, pur tuttavia senza ulteriori conseguenze sull’assetto idrogeologico, mentre nell’Ampezzano, in Cadore, nel Comelico e in Carnia o nelle Dolomiti friulane si sono riscontrati su questo piano maggiori problemi.
Infatti in Trentino – come si è ricordato nell’incontro presso la Magnifica Comunità di Fiemme cui hanno partecipato, oltre a Gilmozzi, lo Scario Giacomo Boninsegna, il sindaco di Varena nonché Presidente del Consorzio dei Comuni trentini Paride Gianmoena, il responsabile demaniale per la Valle di Fiemme Paolo Kovatsch, l’ispettore forestale della Valle di Fiemme Bruno Crosignani – l’oculata gestione delle dighe per ridurre le ondate di piena, le briglie e le azioni di rinforzo degli argini, gli investimenti in sicurezza, attuati anche per merito del “Progettone” che ha dato occupazione e curato il territorio, hanno contenuto i danni dovuti a franamenti e a valanghe.
Ingente tuttavia è la perdita di bosco dovuta ai vortici di bufera generati dal cozzo di forti venti provenienti da nord con quelli provenienti da sud che, incuneatisi nei canali vallivi, hanno creato mulinelli paurosi, boati terrificanti e distruzione di interi pendii: la foresta ha funzioni regolatrici, di solito, ma non di fronte a simili eventi catastrofici.
Certamente nell’emergenza il Trentino ha potuto avvalersi di un sistema che ha permesso un rapido intervento, ivi compreso l’efficacia del “Portale del legno” come strumento per la vendita del legname on line, con garanzia di velocità, trasparenza e gratuità di accesso al servizio.
Quanto al futuro, nel prevedere cioè il ripetersi di eventi analoghi, i nostri interlocutori ammettono che il confronto non è nemmeno iniziato. Ma qui si chiama in campo la politica e la sua capacità (o meno) di guardare oltre l’emergenza. E le domande rimangono senza risposta, quasi che questo nostro confronto indicasse un impegno fin troppo esigente.
Eppure, il disastro dell’ottobre scorso, analogamente allo scioglimento dei ghiacciai o agli eventi atmosferici che sferzano tutta la penisola in queste ore, richiederebbero un campo lungo e quel cambio di paradigma che andiamo invocando in questo nostro viaggio, coinvolgendo istituzioni (pensiamo alla Fondazione Dolomiti Unesco), Centri di ricerca, Università: competenze essenziali per un’alleanza della Montagna di fronte ad cambiamento climatico che ci investe qui ed ora.
Là dove era bosco, ora solo buche e bozzi di ceppi strappati
ai quali, i tronchi tagliati – a ricordo – hanno lasciato l’idea
che lì esistevano soggetti arborei, vissuti e sussurranti
nelle brezze della sera. Ed ora la terra appare come pelle
butterata da scure pustole di vaiolo. E tristemente attende.
La terra attende, infatti, che impariamo a rivolgerci a lei con il debito rispetto, pensando al domani.
Trento, febbraio 2019