La ribellione della natura
di Michele Nardelli
Il vero e il falso, il reale e virtuale. Come discernere, se persino i messaggi che ci manda la natura vengono osservati con lo scetticismo per cui solo ciò che si tocca con mano e ci riguarda personalmente è degno di attenzione?
Durante la mia recente visita in provincia di Benevento, una persona incontrata mi chiede se le immagini della devastazione dei boschi mandate dai media siano vere o non invece il solito modo di ingigantire gli eventi per catturare l’attenzione.
So bene quanto la logica del “proprio giardino” pervada l’atteggiamento dei più e di come sia facile girare altrove il proprio sguardo di fronte a quel che non si vuole vedere, costruendosi un proprio racconto rassicurante ed assolvente. Come so bene che la conoscenza è dolore, meglio dunque convincersi che si tratta di un accidente e non porsi troppe domande.
E malgrado la domanda sia posta con sincera preoccupazione rimango basito nel pensare come la devastazione a due passi da noi (ma nell’interdipendenza tutto è a due passi) possa finire nel tritacarne massmediatico fra incredulità e volatilità di notizie delle quali a breve scomparirà ogni traccia.
Ne siamo tutti vittime, sia chiaro. Ho visto anche recentemente alcuni borghi medievali che in seguito a terremoti sono stati abbandonati da decenni e dei quali si è persa la memoria. Cui corrispondono popolazioni che ancora vivono in alloggi “di fortuna”, incattivite da quel che la vita ha loro riservato. Tutto ormai entra nella categoria dell’emergenza. Ovvero la straordinarietà, l’accidente… come se tutto dipendesse dal caso, compresa l’evacuazione a causa di una perdita nel sistema idrico ed un ritorno sempre rimandato.
Gli eventi eccezionali, penso alla quantità d’acqua caduta fra il 28 e il 29 ottobre o al vento a duecentoventi all’ora, sono inediti, quindi escono dalla norma. Ma come non vedere che la straordinarietà diventa normalità? O come non vedere che molto di quello che chiamiamo “emergenza” è l’esito di fattori di tipo strutturale, dell’esplicarsi di interessi globali o di cambiamenti connessi ai nostri comportamenti e ai nostri approcci culturali?
Il 13 novembre scorso ero in Val Visdende, in provincia di Belluno. Nei giorni precedenti avevo visitato alcune delle zone in Trentino colpite dal tornado che in quella notte aveva spazzato via migliaia di ettari di bosco in tutte le Dolomiti. Lo scenario che mi sono trovato di fronte non era solo inedito, era apocalittico.
Fino ad oggi avevamo immaginato gli effetti dei cambiamenti climatici con un andamento lineare che poco a poco avrebbe eroso coste e ghiacciai, desertificato aree prima coltivabili… e che avrebbe riguardato le generazioni a venire. E invece ci siamo immersi.
L’esperienza ci dovrebbe aver insegnato la prudenza, la prevenzione, la cura del territorio… Sappiamo che raramente è così e certamente se in Trentino i danni almeno sotto il profilo idrogeologico sono stati limitati questo è dovuto da un lato a quel che il 1966 e la tragedia di Stava ci hanno insegnato, dall’altro alle prerogative dell’autonomia.
Ben diversa la situazione nelle Dolomiti bellunesi là dove paghiamo gli effetti di un centralismo regionale e nazionale che ha piegato un territorio potenzialmente ricco, spogliandolo delle proprie risorse (quelle idriche in primo luogo) e dall’imporsi di un modello di sviluppo senza qualità fondato sulla monocultura industriale degli occhiali che ha banalizzato quel territorio, esponendolo oltretutto all’andamento del mercato globale. Cui è corrisposto lo svuotamento delle istituzioni locali, un progressivo abbandono della montagna, la mancanza degli strumenti essenziali per l’autogoverno.
La semplice verità è che che si sta drammaticamente avverando quel che un astronomo aveva previsto nella simulazione che comprimeva l’intera storia del pianeta Terra, quattro miliardi e mezzo di anni circa, sulla scala di un solo anno: il carattere dirompente dell’Antropocene1.
E se dal 19872 di anno in anno stiamo consumando più risorse di quelle che gli ecosistemi terrestri riescono a produrre, sottraendole dunque alle generazioni a venire, oggi siamo al punto che potrebbe essere di non ritorno sul piano degli effetti sul clima. Così se grandi masse di aria calda si scontrano con il vento gelido del nord l’esito diviene largamente imprevedibile e soprattutto impossibile da contrastare. Per questo nuovo contesto non c’è letteratura e i saperi non sono sufficienti. Ho visto Sindaci nella disperazione di fronte al paesaggio devastato, ai boschi spezzati e sradicati, ai laghi letteralmente riempiti di fango e di sedime portati dai corsi d’acqua.
I racconti raccolti nei luoghi devastati ci parlano di un frastuono mai prima ascoltato, del suolo del bosco che si alza di alcuni metri, del rumore intenso della pioggia che copre il suono sordo degli alberi spezzati dal vento. «Ci siamo spinti oltre questo invalicabile confine, dentro un universo nuovo» scrive il giornalista Giampaolo Visetti nel lucido dossier pubblicato da “la Repubblica” il 17 novembre scorso e che potete trovare nella home page di questo sito.
L’ “invalicabile confine” è il limite, ma la cultura del limite è ancora un’eresia, immersi come siamo in quelle “magnifiche sorti e progressive dello sviluppo” che ci hanno portati a questa situazione. Dovremmo cambiare rotta, nel modo di vivere come nei paradigmi. Ma si preferisce dire “si salvi chi può”.
Nello specifico si dovrebbe inverare una Regione Dolomiti, coordinando approcci, interventi, esperienze, mezzi e risorse, evitando il “si salvi chi può”. Una regione, quella dolomitica, che dovrebbe sapere cosa sono i beni comuni, le proprietà collettive, gli usi civici, le regole. Che dovrebbe conoscere la montagna e la capacità di mobilitazione di comunità che nella difficoltà sanno dare il meglio di sé, imparando e riflettendo sul fatto che, nel bene e nel male, nulla sarà più come prima.
Sapremo mettere in discussione i nostri modelli di sviluppo e, contestualmente, cambiare radicalmente i nostri stili di vita? Sapremo darci nuove istituzioni corrispondenti alle nuove geografie del presente? Questa è la sfida che abbiamo davanti a noi. Non nascondo il pessimismo…
L’altra strada disgraziatamente imboccata è quella che ci porta ad affermare il “prima noi” e pensare al proprio giardino, facendo finta di non vedere che il giardino è il pianeta. Per questo siamo in guerra, quella terza guerra mondiale di cui parla papa Bergoglio, nella quale siamo tutti arruolati in nome della “non negoziabilità” dei nostri stili di vita. Di quello che abbiamo (per gli inclusi) o di quello che vorremmo avere (per quelli che vorrebbero esserlo).
Nel suo ribellarsi la natura ci invia un segnale, forse sarebbe il caso di ascoltarla.
1«Secondo questa simulazione, se a gennaio, su un braccio esterno della Via Lattea, si forma il Sole, a febbraio si forma la Terra, ad aprile i continenti emergono dalle acque, a novembre appare la vegetazione, a Natale si estingue il regno dei grandi rettili, alle 23 del 31 dicembre compare l’uomo di Pechino, a mezzanotte meno dieci l’uomo di Naeanderthal, nell’ultimo mezzo minuto si svolge l’intera storia umana conosciuta, nell’ultimo secondo di questo mezzo minuto gli uomini si moltiplicano per tre o quattro volte e consumano quasi tutto quello che si era accumulato nei millenni precedenti» da Gianfranco Bettin, Il clima è fuori dai gangheri. Nottetempo, 2004
2Anno in cui, secondo gli studi del Global Footprint Network, l’impronta ecologica del pianeta ha iniziato a diventare insostenibile.