Sul limes nord-orientale | Lungo i confini del Novecento
Primo diario del 4° itinerario del “Viaggio nella solitudine della politica” (13-17 settembre 2017)
di Michele Nardelli
Come Predrag Matvejevic scrive a proposito dei Balcani, citando una famosa osservazione di Churchill, potremmo dire che stiamo viaggiando lungo un limes – quello nordorientale adriatico – che ha prodotto più storia di quanta non riesca a consumarne.
E se questo è vero per la notte dei tempi, per il Novecento lo è ancora di più, per il condensarsi in questo angolo di mare delle tragedie che lo hanno attraversato, dalle mattanze della prima guerra mondiale all’avvento qui forse più brutale che altrove del fascismo, dalle leggi razziali alla pulizia etnica, dalla cieca industrializzazione all’avvelenamento della laguna che ospita la città più bella del mondo, dall’occupazione nazista che trasformò uno stabilimento per la pilatura del riso in un luogo di sterminio ai campi di concentramento (Arbe) o di rieducazione (Goli Otok) dai quali si usciva (quando si usciva) segnati irrimediabilmente nel corpo e nello spirito, dalla complicità verso i persecutori alla falsa coscienza che ancora pervade comunità chiuse nel proprio racconto (ma meglio sarebbe dire nella propria ossessione). E molto altro ancora.
La mancata elaborazione anche solo di questo passaggio di tempo breve o lungo che è stato il Novecento ha fatto sì che questo secolo ancora oggi incomba sul presente di queste terre, sia come eredità sepolta ma viva nei fanghi della laguna o nelle dolorose vicende familiari degli operai che il petrolchimico ha devastato, come nell’ipocrisia di una città come Trieste che non sa e non vuole fare i conti con se stessa.
Nel nostro itinerario, viaggiamo nelle memorie frastagliate di tutto questo, fra i confini degli uomini e quelli (pur sempre degli uomini) della mente, a ben vedere ancor più radicati di quelli che separano gli stati, fra narrazioni separate e paradigmi apparentemente inossidabili.
*Venezia
Scrive Salvatore Settis nell’incipit del suo “Se Venezia muore”: «In tre modi muoiono le città: quando le distrugge un nemico spietato (come Cartagine, che fu rasa al suolo da Roma nel 146 a.C.); quando un popolo straniero vi si insedia con la forza, scacciando gli autoctoni e i loro dèi (come Tenochtitlan, la capitale degli Aztechi che i conquistadores spagnoli annientarono nel 1521 per poi costruire sulle sue rovine Città del Messico); o, infine, quando gli abitanti perdono la memoria di sé, e senza nemmeno accorgersene diventano stranieri a se stessi, nemici di se stessi. Questo fu il caso di Atene, che dopo la gloria della polis classica, dopo i marmi del Partenone, le scritture di Fidia e le vicende della cultura e della storia segnate da nomi come Eschilo, Sofocle, Euripide, Pericle, Demostene, Prassitele, perse prima l’indipendenza politica … e più tardi l’iniziativa culturale, ma finì col perdere anche ogni memoria di se stessa»[1].
In questo tempo dove si vive al presente, perdere memoria di sé è molto frequente, tanto da usare quel po’ di memoria che rimane come clava contro quella di altri. Come se le identità fossero in sottrazione e non l’esito della conoscenza e dell’incontro. L’abbandono dei luoghi è parte di questa perdita di memoria, come una scelta di rimozione di quel che non ci interessa vedere.
Così iniziamo il nostro tragitto con una navigazione della laguna avendo come primo approdo l’Arsenale, nella sua parte meno conosciuta. La struttura architettonica è spettacolare ma quel che ancora più impressiona è l’immagine di una storia industriale che si svolge con qualche secolo di anticipo sulla rivoluzione industriale, dove convivevano la fonderia e la falegnameria, la corderia con l’armeria…una enorme catena di montaggio (48 ettari, un quarto della superficie della città vecchia) dove lavoravano in sincronia migliaia di persone.
Dal XII secolo in poi uscirono dall’Arsenale le grandi navi (galee) della Repubblica di Venezia che la fecero grande nel Mediterraneo fino al suo sostanziale abbandono dopo la seconda guerra mondiale. Dei tanti progetti che si sono fatti negli anni su quest’area e che in una piccola misura si sono anche realizzati (come la Biennale di arte contemporanea) quello che, a vederlo dalla visuale che Cristina – la nostra “barcarola” – ci propone, mi sembrerebbe straordinario è proprio quello dell’avere coscienza della storia di questa città, la potenzialità maggiore di tutte ma anche quella che ti permette di capire l’intreccio di culture e di saperi che qui si sono incontrati, a cominciare dal nome di questo luogo, Arsenale, e dalla sua origine araba, daras-sina’ah, casa dei mestieri.
Da qui ci spostiamo all’isoletta di Sant’Andrea, un forte del più complesso sistema difensivo della città edificato nel XVI secolo su progetto dell’architetto veronese Michele Sanmicheli. Una difesa della città da attacchi dal mare ma dalla quale si è sparato un sol colpo di cannone, nel 1797, poco prima della caduta della Repubblica. La struttura della fortificazione è molto bella anche grazie ad una recente ristrutturazione che però non ne ha impedito l’abbandono in cui giace.
Giungiamo all’Iveser, l’Istituto Veneziano per la Storia della Resistenza e della Società contemporanea, che ha sede a Villa Heriot, nell’isola della Giudecca. Siamo qui per parlare di politiche della memoria e di elaborazione del Novecento, ma ad attenderci c’è qualcosa di più almeno per le mie corde: la mostra dedicata alla figura di Silvio Trentin. Un dono inaspettato e piacevolissimo, considerato che i suoi scritti (in particolare “Stato, Nazione, Federalismo” e “Liberare e Federare”, raccolti con altri saggi dalla casa editrice Marsilio nel 1987) sono stati più che importanti nella mia formazione politica. Silvio Trentin (padre del più noto Bruno, segretario scomparso della CGIL) era una delle figure di spicco di “Giustizia e Libertà” e del federalismo europeo. Esule in Francia dal 1925 muore nel 1944 senza vedere la liberazione dell’Italia e dell’Europa dal nazifascismo, ma anche l’eclissi di quel pensiero laterale di cui era portatore (“Liberare e Federare” rimase inedito fino al 1972), schiacciato dalle vulgate dominanti nel pensiero politico.
Ripartiamo verso uno dei luoghi forse più paradigmatici del Novecento. Osservare l’area industriale di Porto Marghera dal mare è ancora più impressionante, come un grande animale morente che ancora emette qualche sbuffo malefico. Il mare tutt’attorno – ci dice Cristina – non è più rossastro com’era quando il Petrolchimico era in piena produzione, qualcuno ci pesca nonostante il divieto e perfino le cozze che qui, chissà perché?, crescono giganti da qualche parte pur finiscono.
E’ incredibile come anche il delirio novecentesco possa avere un suo fascino ed anche Gianfranco Bettin – che incontriamo di lì a poco nella sede della municipalità di Marghera – sembra cautamente ottimista nella possibilità di immaginare una nuova vita per quel mostro di duemila ettari, fra porto commerciale, Fincantieri e progetto ENI sulle bioraffinerie.
Gianfranco condivide la nostra preoccupazione sullo sfarinamento sociale che avviene attorno a noi, dal Trentino al Veneto ma anche in altre latitudini, descrivendo quello che lui definisce “post spaesamento”, una sorta di esplosione nevrotica di tutti contro tutti per contrastare il quale ritiene che ogni mediocrità del centrosinistra sia comunque un terreno di incommensurabile valore. Ci racconta di una città dove il centrodestra alle ultime elezioni ha per la prima volta nella sua storia recente conquistato il sindaco, di una giunta che ha toccato il fondo e, al tempo stesso, della necessità di agire nello spazio disponibile per avere una dimensione concreta che possa aiutare a fermare l’implosione e l’imbarbarimento.
*Monfalcone
Con Adriano Persi, sindaco di Monfalcone dal 1993 al 2001, andiamo alla sede del Consorzio Culturale del Monfalconese, a Ronchi dei Legionari. Non mi ero mai interrogato sul perché di quel nome che pure ci dice di quanto il peso del nazionalismo e del Novecento si faccia ancora sentire lungo quella faglia e che per un secolo ha dilaniato territori e popolazioni.
L’oggetto della nostra conversazione con Adriano Persi e Gianpaolo Cuscunà (che del CCM è fra gli animatori) è però Monfalcone e la vicenda dei lavoratori dei Cantieri navali che nel secondo dopoguerra decisero di attraversare il confine spesso con le loro famiglie per costruire il socialismo nella nascente Jugoslavia comunista.
Attraverso un intero secolo che da borgo di pescatori porterà Monfalcone a divenire il grande cantiere navale che richiamerà lavoratori specializzati da diverse regioni italiane ed europee, dando così vita ad una crescita demografica, sociale e civile da farne una città e i lavoratori del cantiere la nuova potenziale classe dirigente. Molti dei quali decideranno di andare prima a difendere la Repubblica in Spagna ed in seguito a costituire le prime brigate partigiane della zona. Prima il fascismo con la persecuzione degli oppositori e le leggi razziali, poi l’occupazione tedesca (ma l’Adriatisches Küstenland non mancava certo il sostegno dei fascisti della Repubblica di Salò, Risiera di San Sabba compresa…) falcidiarono questa classe dirigente. E per loro anche il dopoguerra sarà amaro, fra restaurazione e vendetta.
Motivazioni che saranno almeno in parte decisive nella scelta dell’esodo verso la Jugoslavia, pochi mesi prima della rottura fra Tito e Stalin, rottura che darà il là ad una pagina tragica della loro travagliata esistenza. Perché il loro orientamento internazionalista porterà molti di questi comunisti a non condividere le posizioni di Tito e, nella repressione che ne seguirà, a finire ai lavori forzati a Goli Otok (l’isola calva del gulag jugoslavo) o in Bosnia Erzegovina. In circa quattrocento ci lasciarono la vita. Storie da impazzire, cui seguì per i più “fortunati” il mesto ritorno. Ma il clima era nel frattempo diventato pesante, per l’ostracismo diffuso di una comunità non priva di connivenze e anche per la politica degli alleati americani, per i quali il nemico ora era il comunismo. Meglio riabilitare dunque chi c’era prima, nel frattempo riciclatosi nel nuovo quadro politico parlamentare. L’esito fu un nuovo esodo, questa volta lontano da qui.
Nelle straordinarie pagine di “Alla cieca”[2] Claudio Magris descrive questa tragedia nella figura di Cippico. Finirà in manicomio.
*Trieste
Ed eccoci a Trieste, in questa bella e austera città, prigioniera del Novecento. Nell’incontro alla Casa del Popolo parliamo di questo secolo che fatichiamo ad elaborare e che ha riservato a questo frammento d’Europa il buio del fascismo fin dalle sue origini, le leggi razziali e la “Risiera”, poi la cupezza della “Cortina di ferro”, i nazionalismi e le narrazioni separate, le rappresentazioni politiche che cavalcano tutto questo per coltivarsi il consenso, una sinistra centralista che nemmeno qui sa essere diversa e che – come dice Marino Vocci – ha regalato alla destra il tema del conflitto sul confine orientale in nome di una pacificazione che, in assenza di elaborazione del conflitto, è diventata semplicemente ipocrisia.
Le persone presenti all’incontro hanno una storia di impegno personale nella costruzione di ponti fra le comunità e oltre i confini grazie alla quale qualcosa in questa città è pure cambiato, ma avverto nelle loro parole la stanchezza, perché come osserva Gianluca Paciucci «una parte di Trieste non vuole affatto uscire da quel passato», che non a caso non passa e incombe sul presente.
Eppure di questa pesante eredità non si è mai smesso di parlarne. La letteratura contemporanea ha saputo esprimere in questa terra scrittori come Fulvio Tomizza, Franco Vegliani, Boris Pahor, Joe Pirjevec, Giacomo Scotti, Claudio Magris, Guido Crainz, Paolo Rumiz, Marisa Madieri, Roberto Curci, Marta Verginella, Mauro Covacich e tanti altri che in questi anni hanno cercato di “raccontare il confine”.
Fra questi Melita Richter, sociologa, saggista, mediatrice culturale e tante altre cose ancora, ma soprattutto amica con la quale ho condiviso l’impegno per la pace e la riconciliazione nei Balcani, è con noi a questo incontro. Qui – dice Melita – siamo tutti transfrontalieri, eppure si fa fatica ad andare oltre, anzi c’è qualcuno che pure rivendica di non essere mai stato a Sesana (o Seana), poco oltre il confine con la Slovenia.
Così come si rivendica il passato asburgico e la sua grandezza, senza comprendere che il declino di questa città lo si deve proprio allo scoppio dei nazionalismi che hanno trasformato questo snodo naturale fra oriente e occidente in un binario morto.
Avverto anche in questo luogo “alternativo” dove pure di tutto questo parliamo si faccia fatica a smarcarsi dalle appartenenze del passato, perché non è facile interrogarsi sui propri paradigmi e sulla profonda sconfitta delle istanze egualitarie che il Novecento ci ha consegnato. So bene che su questo potremmo fermarci per giorni e giorni a discutere se ad essere sconfitte sono le aspirazioni o le rappresentazioni che la storia ha prodotto…come se visioni e utopie non si potessero ripensare alla luce del tempo. Penso fra me come anche nei nostri mondi si faccia fatica a scrollarsi di dosso le eredità del passato senza per questo rinunciare alla radicalità nel pensiero come nel proprio agire.
L’ambiente è un po’ diverso quando il giorno successivo incontriamo al Caffè Tommaseo lo scrittore e giornalista Roberto Curci, autore di un bel libro “Via San Nicolò 30” dedicato alle vicende tragiche dell’occupazione tedesca e al sistema concentrazionario che porterà alla trasformazione di uno stabilimento per la pilatura del riso in un campo di prigionia e di sterminio. O, meglio, a quanto la rimozione e la falsa coscienza attorno a quegli avvenimenti tenga ancora in scacco questa città.
La domanda che emerge con forza nella conversazione con Curci è in buona sostanza la seguente: che cosa è diventata questa città? Perché se il conflitto con gli sciavi vicini (considerati dagli italiani gente inferiore, tanto per toccare il tema della modernità del conflitto fra città e campagna) c’è sempre stato, non era così con le popolazioni che entravano in relazione con Trieste, tanto che la città ha assorbito emigrazioni dal Mezzogiorno d’Italia come dall’Europa continentale, dalla Grecia come dalla Turchia, caratterizzandone così l’anima cosmopolita… Ora invece (ma non da oggi) appare ripiegata su se stessa, chiusa economicamente prima ancora che culturalmente. «Come se l’Italia avesse portato chiusura». Anche l’assetto demografico ci dice molto: all’inizio del secolo scorso gli abitanti di Trieste erano 270.000, ora sono poco più di 200.000.
Anche questo è l’esito del Novecento. Così ai “maledetti sciavi”, si sono aggiunte altre analoghe imprecazioni: “maledetti ‘taliani”, “maledetti esuli”… maledetti tutti, insomma, in un rancore profondo quanto cieco. Roberto Curci parla in questo senso di “involuzione nevrotica”, un clima rancoroso che egli esemplifica con la storiella di due persone anziane che s’incontrano dopo un po’ di tempo: «Che mal che te vedo, appena te starai mejo, vegno a trovarte».
Quell’involuzione nevrotica che è emersa anche all’uscita di “Via San Nicolò 30”, come se Curci avesse toccato il filo scoperto della mancata autocoscienza o, se volete, della necessità di fare i conti con le pagine più controverse della vicenda novecentesca di questa città. Ed ecco scattare l’ostracismo, anzi gli ostracismi, quello della comunità ebraica (nessuno può permettersi di giudicare in casa nostra), quello dei “sabiani” (i cultori di Umberto Saba che nel libro di Curci emerge nel proprio nevrotismo), perfino quello degli storici di professione, stizziti che una vicenda così emblematica come quella di Mauro Grini, spia e delatore, lui di famiglia ebraica che fece incarcerare in Risiera e nei campi della morte centinaia o forse migliaia di suoi correligionari, fosse finita nel silenzio. Un libro da leggere. Con altri che Roberto Curci ci ha consigliato per comprendere questa città in questo piacevole incontro.
Dal Caffè Tommaseo andiamo alla Risiera di San Sabba. Ci sono stato altre volte, conosco la strada. Ma se si dovessero seguire le indicazioni, che mano a mano ci si avvicina esse scompaiono, il luogo forse più tragico e importante della memoria della seconda guerra mondiale in Italia è difficile da rintracciare. Trieste preferisce rimuoverlo, un ingombro che non casualmente è stato circondato dai simboli della banalità del presente, centri commerciali e svincoli stradali.
E’ una giornata piovosa e questo rende quel luogo ancora più surreale. Come ogni altra volta che vi ho fatto visita, non più di qualche sparuto gruppo, spesso non italiani. Non c’è un fiore, quando se ne andranno anche i pochissimi testimoni rimasti in vita sfumerà anche il ricordo, i libri chissà dove finiscono, quel che non fa la rimozione lo uccide la retorica e il gioco è fatto. Del resto si sa quel che si vuol sapere.
Osservo Razi e Soheila, compagni di viaggio che nel documentare il nostro cammino ascoltano i racconti lungo questo limes che loro percorrono per la prima volta, qui sembrano smarriti. Conoscono bene il dolore e la malvagità, loro “cittadini del nulla”. Eppure in questo luogo dove la vita valeva meno di niente colgo nei loro occhi lo stupore, quasi che l’armadio degli scheletri fin qui visto da dietro come una qualsiasi parete di una banale quotidianità si fosse improvvisamente girato e aperto, rovesciando loro addosso storie che questo civile paese e questa civile città vorrebbero sepolte e dimenticate.
Meglio non indagare, “non andemo in disgrassie”. Anzi meglio dare una mano di calce in tempo di pace sui nomi scritti dai detenuti prima di morire per testimoniare degli aguzzini o dei loro amici altolocati. «Dopo la guerra viene la pace, che ha pure il bianco colore del sepolcro e dei sepolcri imbiancati nel cuore»[3] scrive Claudio Magris a proposito di ciò che rimaneva della Risiera. Oppure il fuoco che cancellò i taccuini del professor Diego de Henriquez che quei nomi aveva pazientemente trascritto uno ad uno, fogli accartocciati dal fuoco per restituire onorabilità a chi festeggiava nel Castello di Miramare insieme ai gerarchi il compleanno di Adolf Hitler.
*Capodistria/Koper
Pochi minuti. Quello che un tempo era un segmento della “Cortina di ferro”, un confine aspro anche quando la Jugoslavia prese una propria strada nel biasimo dei Partiti comunisti (compreso quello italiano), oggi appare svanito come la neve al sole tanto che quasi nemmeno ci si accorge di essere in un altro paese. Malgrado l’Europa politica sia ancora ben lontana, è un piccolo segno di civiltà. Per la verità dovrebbe essere così anche per il confine successivo che ci porta in Croazia, ma come vedremo lo sguardo severo di chi ti controlla pur trattandosi di un confine interno all’Unione Europea non è affatto un ricordo.
Ma torniamo a Capodistria dove incontriamo Stefano Lusa, giornalista di Radio Capodistria e collaboratore di Osservatorio Balcani Caucaso – Transeuropa. Sappiamo uno dell’altro, leggo le sue corrispondenze ora un po’ diradate per effetto dei tagli sui finanziamenti (quasi che questa eccellenza europea che il Trentino ha costruito fosse un ingombro, del resto parlare di Europa ti fa perdere voti, figuriamoci della sua parte balcanica o caucasica… alla faccia dell’internazionalizzazione), ma con Stefano è la prima volta che ci incontriamo.
Con lui parliamo di ciò che rimane nelle nuove generazioni delle memorie di confine e di quel particolare confine che ha segnato la storia del Novecento. E dei nuovi confini, quelli che segnano le vite dei migranti e di rifugiati lungo le rotte balcaniche.
Ci racconta della retorica con la quale si coltivano le appartenenze, il rancore per la deprivazione dei litorali istriani, i contenziosi con l’Italia e la Croazia, il mito asburgico per prendere le distanze con un oriente balcanico considerato ingombrante, come evidenziato dalla triste vicenda dei cittadini sloveni che provenivano dalle altre repubbliche jugoslave (i cancellati) ai quali venne negata la cittadinanza. E di almeno due “Slovenie”, quella dei giovani proiettati verso l’Europa e quella chiusa nella difesa delle proprie tradizioni.
Ci parla anche della sua esperienza di giornalista lungo le rotte balcaniche, quelle delle nuove migrazioni provenienti dall’Oriente e dal Mediterraneo, fra solidarietà, paure, business e inversione dei ruoli. Di quanto sia facile cioè capovolgere i vissuti e ricorrere al filo spinato in nome del “prima noi” e dei sovranismi che si insinuano ovunque. Specie se si ha (o si pensa di avere) qualcosa da perdere.
Ed in effetti la Slovenia di oggi ci ricorda ben poco di quella che frequentavamo negli anni ’70 e ’80, le 600 Zastava, l’odore acre di carbone in inverno, le vecchie kafane dal sapore di cipolla e gulash, le grigliate di pesce per due soldi. Gli antichi borghi, che pure mantengono immutato il loro fascino, sono oggi assediati da vicino dai capannoni, dai centri commerciali e dai casinò. Fra il turbocapitalismo e il turbofolk.
*Rijeka/Fiume
Ripartiamo alla volta di Fiume/Rijeka, Croazia. Qui la frontiera si percepisce, eccome, e non solo nelle fila di auto. Se a Capodistria la sensazione era di un paese che ha velocemente saputo svoltare rispetto alla propria vicenda novecentesca, in questa città un po’ italiana e un po’ croata l’odore è ancora quello della Jugoslavia.
Con Giacomo Scotti ci vediamo nei pressi della stazione ferroviaria. Entrandovi sembra di fare un passo indietro di trent’anni, il trasporto ferroviario non sembra interessare al turbocapitalismo e anche la stazione centrale lo risente, fra mura scrostate e lapidi che ricordano il sacrificio dei ferrovieri nella costruzione del socialismo.
Arrivano dei treni passeggeri, vetture vecchie e poca gente. Giacomo abita in periferia ed arriva all’appuntamento a piedi, nonostante i suoi 89 anni, in ottima forma. L’ultima volta che c’eravamo incontrati era in occasione di un incontro pubblico sui Balcani in qualche paesino del Veneto che ora non ricordo. Saranno passati almeno sette o otto anni ma lo ritrovo con la forza d’animo, l’energia e la sensibilità di sempre.
Andiamo a prendere qualcosa al ristorante Mornar, a due passi dal porto, solo per iniziare la nostra conversazione che ci dovrebbe portare la domenica successiva a Goli Otok. Perché Giacomo è stato forse il primo scrittore italiano ad aprire uno squarcio di verità sull’isola Calva dove venne realizzato il campo di lavoro della repressione contro i cosiddetti cominformisti, quei comunisti che dopo la rottura fra Tito e Stalin si schierarono con quest’ultimo, quando ancora – come scrive Predrag Matvejevi nella prefazione al libro “Il gulag in mezzo al mare” (Lint Editoriale, 2012) – tutti tacevano su quella vergogna. Lo fece sulle pagine della “Voce del popolo”, l’unico quotidiano in lingua italiana che usciva nella Jugoslavia. Erano anni che Scotti raccoglieva le testimonianze dei colleghi che avevano conosciuto la fame, le violenze e l’umiliazione di confinati, ma che avevano la consegna del silenzio, come tutti quelli che erano passati da lì.
Cominformisti? «In un colloquio avuto a Fiume nel 2001 col mio amico poeta Ante Zamljar, una delle vittime della repressione, registrai quanto egli mi disse di un breve incontro avuto nel 1985 col generale Jefto Sasi [alla fine degli anni ’40 comandante del KOS, il servizio di controspionaggio – ndr]. A un certo punto, inaspettatamente, Ante gli chiese: “Sapresti dirmi quanti furono i veri cominformisti finiti sull’isola Calva?” Incrociando le braccia, l’altro rispose: “Bah, per quanto ne so, nemmeno il cinque per cento»[4].
Si è fatto tardi e ci diamo appuntamento per il giorno seguente per raccogliere nel nostro viaggio una sua intervista su Goli Otok e non solo. Cerchiamo un luogo per dormire, vorrei tornare a Voloska dove in un clima surreale trascorsi una serata nel 1993, in piena guerra. Luogo che mi è caro anche per il romanzo di Franco Vegliani “Processo a Voloska”[5], al quale Magris dedicò queste parole: «uno dei libri più belli della letteratura triestina del dopoguerra». E invece finiamo ad Opatija/Abbazia, luogo di vacanza degli arricchiti ed un tempo delle nomenclature. Siamo stanchi e ci rifugiamo nel primo albergo che troviamo, in tempo però per vedere un po’ della fauna che frequenta questo luogo, fra tacchi a spillo e palestrati.
Al loro cospetto Giacomo Scotti sembra davvero un personaggio di altri tempi. La raffinatezza napoletana, la caparbietà di chi crede nei propri valori, la tenacia della ricerca della verità, la curiosità dell’ascolto, la dolcezza dei nonni… La lunga intervista che si svolge lungo il mare di Fiume/Rijeka è in effetti una conversazione sul Novecento e avrete modo (se lo desiderate) di ascoltarla quando riverseremo tutto il materiale sul sito dedicato a questo viaggio.
Durante la notte c’è stata tempesta, il mare è in subbuglio. Il nostro Caronte che avrebbe dovuto portarci a Goli Otok ci telefona da Baska dicendoci che la bora sconsiglia proprio di mettersi in mare.
Se questo itinerario (il quarto) del nostro “Viaggio nella solitudine della politica” è stato ispirato dal romanzo “Alla cieca”, una delle cose più belle che abbia mai letto, allora Giacomo ne è l’inconsapevole ispiratore.
«Dedicandomi un esemplare del suo romanzo Alla cieca, Claudio Magris confessò che senza il mio primo libro sull’isola Calva “questo romanzo non sarebbe nato”. Una delle voci della storia magrisiana è Cippico. “Quella di Cippico – scrive il romanziere triestino – è una ferita bruciante che lui non supera mai, vi ritorna ripetutamente. Questa stessa circolarità implica il non uscirne mai. E’ sempre là, nel Goli Otok come nei Gulag”. Ecco, neppure io sono mai riuscito a levarmi di testa quell’inferno concentrazionario, e ne scrivo ancora» [6].
Questo nostro itinerario s’interrompe qui, con l’impegno di ritornarci sull’isola Calva che in questi giorni non siamo riusciti a raggiungere, non appena le condizioni del tempo (e i tempi delle nostre vite) lo renderanno possibile.
“Alla cieca”, straordinaria metafora del Novecento, se ci pensiamo bene ha a che fare anche con questo tempo carico di incertezza. Lungo la strada del ritorno, interrogandoci sul senso di questo nostro viaggiare, proviamo ad incrociare i nostri sguardi tanto diversi, per mettere un po’ d’ordine nelle immagini e nei pensieri. Sepanta [7] è felice di ritornare a casa, ma il suo diario è pieno di immagini nuove, di volti e di vita.
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1. Salvatore Settis, Se Venezia muore. Einaudi, 2014
2. Claudio Magris, Alla cieca. Garzanti, 2005
3. Claudio Magris, Non luogo a procedere. Garzanti, 2015
4. Giacomo Scotti, Il gulag in mezzo al mare, Lint Editoriale, 2012
5. Franco Vegliani, Processo a Voloska. Sellerio editore, 1989
6. Giacomo Scotti, opera citata.
7. Sepanta, figlio di Razi Mohebi e Soheila Javahery, registi e raccoglitori di immagini, in viaggio con noi insieme a Giuseppe Ferrandi e il figlio Mirco, Gabriella Merz, Micaela Bertoldi, Francesco Prezzi, Federico Zappini, Andrea Rossini e a chi scrive.