Destra e sinistra. Anno 2017.
di Federico Zappini
Stefano Fait va preso così com’è, non si può fare altrimenti. Un prezioso “rompiscatole”. Un produttore a getto continuo di provocazioni [non è una critica, anzi] che hanno spesso le proprie radici nell’attenta analisi del presente – senza lesinare su dati e approfondito raccordo delle fonti – e sguardo proiettato nel futuro, il tempo nel quale – per quello che lo conosco – si sente certamente più a suo agio. Aspetto, quest’ultimo, che gli rende onore.
In questo caso i suoi due cents quotidiani trovano spazio nel blog che periodicamente anima all’interno del quotidiano online Il Dolomiti. Non perdendo di vista i confini del Trentino-Alto Adige (attraversati in questi mesi da scricchiolii preoccupanti della tenuta socio-politica che da almeno venti anni li caratterizzano) il suo pezzo stressa l’ipotesi di una nuova fase politica nascente – da Trump a Macron, passando per una serie di altri leader a diverse latitudini – che parta dall’entrata in scena di quelli che lui definisce “neutri integratori”. Personaggi capaci di interrompere lo stillicidio del contrasto tra tifoserie di destra e sinistra e di produrre – pragmaticamente – “soluzioni che vadano a beneficio di tutti, prendendo il meglio delle proposte della destra e della sinistra e superando gli infiniti impasse che hanno reso disfunzionali le nostre società e prassi politiche”.
Apparentemente – almeno nell’esperimento da laboratorio che propone Stefano – la soluzione più diretta alla farraginosità e inconcludenza dei modelli politici a cui facciamo riferimento. Apparentemente tutto molto lineare e evidente.
Raccogliendo il suo spunto – che anticipo, non condivido – ho provato a mettere in fila qualche piccola riflessione perché credo sia urgente lo sforzo di mettere in moto pensieri che tentino di scalfire il monolitico, e incerto, incedere delle forme della politica.
[testo originale, Stefano Fait – Il Dolomiti 6 settembre 2017]
Sintetizzo il nucleo del tuo ragionamento. Una maggioranza significativa di cittadini (in tutti i contesti? e di chi non la pensa così che facciamo?) é sempre meno interessata a partecipare alla vita politica e pretende pragmatismo operativo – la logica win-win di cui parli – piuttosto che la contrapposizione sterile tra idee differenti di futuro, laddove queste idee esistano. La politica – e i politici – dovrebbero quindi essere in grado di interpretare questo sentimento ed estrapolarne un nuovo modello democratico. Totalmente post-ideologico, meno rissoso e orientato alla massimizzazione dell’efficienza.
Personalmente non la condivido perché tende a escludere (estremizzo) la generatività dei conflitti – il tratto in cui più credo dell’esperienza tradizionale della politica – e sottintende la possibilità di scegliere tra le differenze, i molteplici punti di vista e i contesti di vita come al ristorante si fa tra i diversi primi, secondi e contorni a disposizione. Politica, per così dire, à la carte. Il compito del politico – del “neutro integratore” – sarebbe quindi quello di essere un buon selezionatore. Di primo (ad esempio sulle politiche ambientali?) qualcosa che viene dalla cultura di destra, di secondo (sull’immigrazione?) qualcosa che viene da sinistra.
Il tuo ragionamento si basa sulla possibilità di descrivere e praticare un ruolo di totale terzietà. Ma chi può definirsi davvero terzo? E ancora, terzo rispetto a quali posizioni e quali tra i molteplici attori dello scenario politico e sociale e i loro specifici interessi? L’esperienza dei governi tecnici italiani (ad esempio quello di Mario Monti) non aveva forse l’obiettivo di – in un contesto ritenuto d’emergenza – mettere tutti d’accordo, rappresentando da un lato l’esigenza di unità nazional e dall’altro quella di mettere da parte le polemiche politiche attuando, senza fronzoli, le “necessarie” riforme? Sostenuti, anche e soprattutto per opportunismo, dall’intero Parlamento – destra e sinistra si diedero la “responsabilità” di una grande coalizione all’italiana – furono dopo poco tempo costretti a interrompere il loro lavoro per far tornare (giustamente) i cittadini al voto. Lo stesso Mario Monti chiamato a confrontarsi con gli elettori ottenne un risultato assolutamente deludente, lasciando spazio ai tradizionali attori dello scenario politico italiano. Non certo dei costruttori di ponti. Ci sarebbe da chiedersi – ti provoco – se i “neutri integratori” possano emergere attraverso le elezioni o debbano trovare legittimazione popolare attraverso altri processi. La nomina? L’estrazione, dentro un elenco di personalità che abbiano le caratteristiche per interpretare questo delicatissimo ruolo di equilibrio e sintesi?
Allargando lo sguardo oltre l’Italia non mi sembra che nessuno dei leader politici che hai preso in considerazione nel tuo pezzo riesca a rappresentare in pieno la tua idea di “democrazia della conoscenza senza opposte tifoserie”. Le tifoserie – le parti politiche, le ideologie nella versione più nobile del termine – non sono ancora finite in soffitta e così rimangono in campo le scelte che, prese partendo da o con l’ambizione di un disegno politico di riferimento, non riescono ad andare nella direzione di soddisfare davvero – in maniera omogenea – le aspettative del 99% dei cittadini. L’idea di Donald Trump di abrogare il Deferred Action for Childhood Arrivals non è certo un provvedimento win-win. Qualcuno perde dentro quel meccanismo. Altri pensano di vincere, almeno per i prossimi cinque minuti della storia. Lo stesso vale per la scelta da Emmanuel Macron di differenziare nettamente tra rifugiati (legittimi) e migranti economici (illegittimi). Anche in questo caso qualcuno vince e altri restano esclusi da una narrazione che ha confini ben precisi tra inclusi ed esclusi. Neppure Angela Merkel – che pure in Germania sembra essere la rappresentante di una Große Koalizion di popolo e di senso oltre che di partiti che la sostengono – o Papa Francesco spingono i loro tratti di innovatività dentro lo scenario di un ordine altro, totalmente post-ideologico.
Che tutti dicano, con maggiore o minor convinzione, che la differenza tra destra e sinistra non esiste più non certifica che questa ipotesi sia vera. Non ne faccio una questione di etichette da difendere e neppure di affermare la totale incomunicabilità tra le parti. Aggiungo che se poi volessimo andare a valutare all’interno della base che sostiene le leadership (cittadini più o meno consapevoli, più o meno attivi) molto probabilmente non troveremmo una prevalenza di sentimenti cooperanti e mutualistici, ma ancora la competitività e l’aggressività nei confronti dell’altro. Meccanismo questo che genera modelli di sovranità che vanno ben più in profondità di quelli geografico/statuali che riemergono con forza in questa fase storica. Una sovranità che arriva dentro il quartiere, la via, il condominio, fino a colpire i rapporti interpersonali e di prossimità.
Tornando alla dimensione utopica e futurista del modello di democrazia che tu proponi, e provando a riportarla anche a una dimensione locale (dagli Schützen in giù), mi viene da dire che oggi a scompaginare le carte non potrà essere qualcuno che affermi di poter rappresentare tutti indistintamente (chi potrebbe farlo? a quale costo in termini di continui compromessi al ribasso o schizofrenia nelle posizioni da assumere?) ma chi sarà in grado – partendo da un’idea di mondo che ritiene desiderabile, esprimendola onestamente e in maniera trasparente e credibile – a produrre risultati, valutabili e duraturi, che vadano a vantaggio dell’intera comunità. Sia essa quella del Trentino o quella del Pianeta Terra intero. Non è forse questo il ruolo di chi è chiamato ad amministrare il Bene Comune? Che io venga eletto solo da una parte della mia comunità di riferimento – parte sempre più esigua visti i trend calanti degli elettori votanti – non mi permette certo di prendermi cura esclusivamente di quella parzialità dimenticandomi del resto.
C’è bisogno di etica e formazione politica e c’è bisogno di luoghi che ne garantiscano l’emersione e il radicamento. “Democrazia previsionale e città sapienti” si basano sull’abilitazione diffusa dei cittadini (oggi non lo sono, anzi…), classi dirigenti preparate e consapevoli della sfida (anche qui non ci siamo, e in Trentino ci sarebbe spazio per una nuova generazione che metta da parte ciò che è stato fin qui accettando la sfida di un futuro tutto da costruire), metodi e strumenti di partecipazione e collaborazione radicati e utilizzati costantemente (ci vuole tempo, energie, convinzione).
Non saranno i leader – o almeno non loro da soli – a determinare questo passaggio. Serve una trasformazione di massa, che sappia coinvolgere tutti e ciascuno praticando davvero l’orizzontalità. A distanza di cinquant’anni esatti dal ’68 il prossimo anno sarebbe il momento perfetto – non per nostalgia o per una mitologica retorica di quel periodo storico, ma per utilizzarne lo slancio narrativo – per affrontare una discussione, magari proprio in piazza, dei contorni e dei contenuti delle utopie (realistiche, pratiche, concrete) che questi tempi interessanti e difficili richiedono e che dobbiamo essere capaci di condividere e mettere in atto, collettivamente.
– da Pontidivista, 12 settembre 2017 –