Un primo bilancio. Sguardi per abitare il presente.
di Michele Nardelli
Il “Viaggio nella solitudine della politica” dopo una breve pausa agostana si avvia alla sua quarta tappa lungo l’itinerario che percorre il “limes” del nordest italiano, fra Venezia e Goli Otok, l’isola nuda tristemente celebre per aver ospitato il gulag del regime titino nel secondo dopoguerra.
Nel riprendere ora questo cammino alla ricerca di nuovi paradigmi per leggere il presente ed immaginare il futuro, vorrei provare a condividere con voi un primo bilancio, dal “prologo trentino” agli itinerari che hanno attraversato la “Regione Dolomiti”, le Terre Alte dell’Arco Alpino occidentale, Roma e le sue città.
Purtroppo non siamo ancora riusciti, al di là dei miei diari, a mettere in chiaro su questo sito tutto quel che ne abbiamo raccolto negli incontri e nelle conversazioni con le persone e le esperienze collettive con le quali abbiamo scambiato sguardi e pensieri.
Si tratta di un materiale molto ricco che richiede trascrizione, sintesi, verifica con le persone coinvolte e montaggio fra parole e immagini. Un lavoro più complesso del previsto anche perché sottratto ai ritagli di tempo libero di Federico e di Guido che, in forma del tutto volontaria, stanno approntando questo racconto. Nella speranza di riuscire ad avviare nelle prossime settimane la pubblicazione di ciò che abbiamo raccolto, vorrei provare qui a mettere a fuoco quel che ne sta venendo. Perché le realtà con le quali siamo entrati sin qui comunicazione vanno delineando in ciascun itinerario, e in maniera forse ancor più nitida di quanto potessimo immaginare, altrettanti segmenti di quel cambio di paradigma che di questo viaggio rappresenta l’essenza.
*Trentino. Lo sfarinarsi di un blocco sociale
A partire dal prologo trentino, così interessante che abbiamo deciso di tenerlo aperto ad altri ascolti sul territorio. Ne emerge infatti uno spaccato di questa terra piuttosto preoccupante, di cui mi pare non vi sia consapevolezza nell’osservazione politica e sociale, nel quale si percepisce il crescente sfarinarsi del blocco sociale che è stato all’origine di quell’anomalia politica che ha permesso al Trentino di sfuggire almeno in parte alle dinamiche di spaesamento che abbiamo conosciuto altrove.
Quell’anomalia si reggeva su ragioni strutturali (penso all’assetto proprietario, all’organizzazione civica e sociale, al mutualismo e alla cooperazione…), istituzionali (un’autonomia dinamica che diventa integrale), ma anche sulla capacità soggettiva di una sperimentazione politica difforme dal quadro nazionale. Ciascuna di queste condizioni non era affatto scontata, richiedeva invece di essere coltivata sul piano culturale prima ancora che su quello politico/istituzionale (o delle tutele).
Ed è qui, su questa azione di cura, che si sono evidenziati i limiti maggiori. Perché un’autonomia pressoché integrale aveva bisogno di connettersi con i grandi processi di cambiamento, di una classe dirigente diffusa in grado di leggere i segni del tempo, di forme partecipative in grado ad ogni livello di bilanciare i dirigismi del potere, di autonomia politica capace di sguardo lungo.
Così nel corso del tempo i fattori peculiari sui quali si reggeva questa diversità hanno mostrato crepe sempre più vistose o quanto meno segnali di crisi, che la classe dirigente non ha saputo cogliere per tempo o per nulla, forse troppo intenta a salvaguardare se stessa. E non mi riferisco al solo piano politico, perché la stessa “crisi di sguardo” attraversa l’insieme dei corpi intermedi. Tanto che l’anomalia ha cominciato a cambiare di segno.
Esemplare a questo proposito la vicenda del “Terzo Statuto”, tema con il quale abbiamo iniziato il primo dei nostri itinerari, quello della Regione Dolomiti. Questione che potrebbe rappresentare per la sua valenza culturale e politica una sorta di programma politico, l’idea di un autogoverno connesso non più con l’ambito nazionale bensì europeo e, nella prospettiva di un’Europa federale, la formazione di aree sovraregionali e sovranazionali nelle quali sviluppare politiche comuni e servizi (università, sanità, energia, mobilità…) in rete fra loro. E che invece è stato ridotto alla difesa delle attuali prerogative, in tutto riconducibili all’attuazione del “Secondo Statuto”, nonché al richiamo – per quanto riguarda l’Alto Adige/ Südtirol – ad anacronistiche rivendicazioni di stampo nazionalistico. Il “Terzo Statuto” poteva assumere un tratto paradigmatico, ma così non è stato. Una buona ragione per non lasciarla cadere.
Proseguiremo questa nostra ricognizione a prescindere dalle scadenze politico/istituzionali, nella convinzione che a questa terra occorra un ripensamento di fondo e una nuova classe dirigente capace di far tesoro nel bene e nel male del passato.
*La Regione Dolomiti, la resistenza delle proprietà collettive.
Con la questione del Terzo Statuto abbiamo in buona sostanza introdotto anche la cornice del primo dei nostri itinerari, dal Trentino all’Alto Friuli, attraverso l’Alto Adige/ Südtirol e la provincia di Belluno. Quella di una realtà sovraregionale che ancora non esiste ma che potrebbe iniziare – anche a statuto invariato – ad immaginarsi come tale.
Ciascuna di queste realtà ha buoni motivi per farlo. Chi si rende conto che l’autonomia da sola non basta e che ci sono dimensioni di scala che sono condizioni imprescindibili per fare qualità, chi è stato messo nel limbo da uno scasso istituzionale che ha fatto saltare le Province senza che vi fosse un’alternativa di autogoverno, chi per uscire da vecchi cortocircuiti etnico-nazionalistici, chi ancora perché non ha saputo immaginare l’autonomia come processo dinamico di assunzione di sempre nuove competenze e responsabilità.
Nel difficile rapporto che segna, oggi forse ancora più di ieri, le scelte politico-amministrative fra la montagna e la pianura, una delle forme di resistenza al centralismo sono stati i beni comuni e la loro gestione partecipata attraverso le proprietà collettive, gli usi civici, le regole.
La ricchezza dei territori montani sta nelle loro caratteristiche e nei loro straordinari patrimoni indisponibili (che li dovrebbe proteggere dall’alienazione, anche se non sempre è stato così), risorse che da sole potrebbero garantire favorevoli condizioni di autogoverno. Parlo dell’acqua, degli impianti idroelettrici, dei pascoli e delle attività collegate, del legno, delle risorse minerarie, del sottobosco, della bellezza e unicità dei territori montani, del turismo dolce che ne può venire, dei borghi abbandonati e così via.
Usare il condizionale è d’obbligo perché in realtà il vincolo della proprietà collettiva (ovvero di ciascuno) in passato è stato aggirato in nome del superiore interesse regionale o nazionale. E questo ci parla di normative che non sono date una volta per tutte, che richiedono cioè consapevolezza, conoscenza, lungimiranza, capacità di contrattuale fra poteri, in una parola una nuova classe dirigente capace di riconciliare i territori e la politica. Prendendosi in capo responsabilità oggi delegate.
Terre che, in assenza di reali forme di autogoverno, si spopolano con il conseguente impoverimento. Frustrando le spinte al ritorno che soprattutto fra i giovani laureati prendono corpo nella speranza di mettere a disposizione le loro conoscenze alla comunità di origine cercando ambiti meno precari di quelli offerti nelle aree metropolitane. Portatori di un importante valore aggiunto, rappresentano una sorta di “ultima chiamata” nell’invertire la tendenza all’esodo verso le città.
*Le Terre Alte alpine. Le strade del ritorno.
Gli stessi pensieri emersi con forza nell’incontro di Belluno li abbiamo raccolti nel viaggio successivo attraverso le Alpi centro/occidentali, dalla Val Camonica alla Val Susa. Un crinale alpino vicino e al tempo stesso immensamente lontano dalle sue principali città di due regioni, la Lombardia e il Piemonte, fra le più industrializzate di un paese sempre più de-industrializzato. Perché se nel corso del Novecento sono stati proprio i processi di industrializzazione ad infliggere il colpo più duro al fragile tessuto economico e sociale montano, è altrettanto vero che quelle città sviluppatesi a dismisura attorno ai loro insediamenti produttivi ora sembrano smarrite di fronte alla riconversione forzata verso un’economia terziarizzata nella quale tutto si vende e nulla si produce. E dove ogni aspetto delle nostre relazioni è mercificato. Montagna e campagna possono rappresentare una via d’uscita? Se non altro un fattore di riequilibrio.
Dall’Università della Montagna di Edolo (Sondrio) alla Scuola del ritorno a Paralup (Cuneo) il nodo cruciale che è continuato ad emergere in questo itinerario è stato proprio quello del rapporto fra città e montagna nel senso di ri-costruire nuovi equilibri per ri-considerare stili di vita e di consumo all’insegna della sostenibilità.
Immagino che non sia affatto casuale il fiorire di una letteratura sulla montagna che rompe un cliché specialistico arrivando fino al Premio Strega 2017 con il romanzo di Paolo Cognetti “Le otto montagne”, o come ci sia ben poco di manieristico in un film come “La prima neve” dell’amico Andrea Segre, ambientato nella nostra Valle dei Mocheni. Il tema del ritorno corrisponde alla necessità di fronte all’insostenibilità del presente di ritornare sui propri passi, di interrogarsi non solo sulla nostra impronta ecologica ma anche sul senso delle nostre vite di corsa, nelle quali la rivoluzione informatica anziché aiutarci a vivere meglio ci ha resi ancora più subalterni ai processi di una moderna alienazione.
Se poi il modello turistico che si è imposto nel corso del Novecento tendeva a trasferire sulla montagna lo stesso paradigma fordista, con l’esito di trasformare la natura delle “terre alte” in divertimentificio di massa, brutto e banalizzato da diventare – almeno ai nostri occhi, s’intende – inguardabile, il «cammino a ritroso» diviene un imperativo.
Un ripensamento rispetto al quale nessuno si può chiamare fuori. Persino città come Ivrea, cresciute all’insegna di un diverso modello come quello “olivettiano”, si trovano ad interrogarsi su ciò che rimane di quell’eresia, nella fatica di farne tesoro eppure prigionieri di quella storia.
Ecco che l’esortazione dell’amico Maurizio Dematteis “Via dalle città” diviene la proposta di un cambio paradigmatico profondo, rispetto al quale le evidenze di questi giorni relative agli effetti del cambiamento climatico e della cementificazione del territorio sono un monito di cui non si vuole prendere atto.
*Roma e le sue città. I bandoli della coesione sociale.
Lo abbiamo immaginato come un itinerario improbabile che, mano a mano, si è rivelato invece in tutta la sua pregnanza. Viaggiare in una città come Roma si è dimostrato possibile perché abbiamo semplicemente preso atto che il nostro cammino era fra le città di Roma, al plurale, per descrivere altrettante comunità urbane tra loro molto diverse e che già oggi, a dispetto del quadro istituzionale che le unisce, vivono di vita propria.
Non si tratta solo di una fotografia dell’esistente, pure importante per capire. Si tratta di una possibile chiave di interazione, per far fronte all’ingovernabilità di una metropoli alle prese con il potere dilaniante di corporazioni grandi e piccole, incapaci (o non interessate) di progettazione unitaria ma che al tempo stesso si nutrono di questa dimensione metropolitana insostenibile. L’elenco dei microsoggetti e del loro potere contrattuale potrebbe essere infinito e – di fronte ad una politica ufficiale che si svolge all’insegna della ricerca di consenso – paralizzante.
Qui centrano relativamente i sindaci che si sono susseguiti negli ultimi anni o decenni. Abbiamo a che fare con l’incapacità di cogliere i processi di trasformazione culturale prima ancora che sociale, che nello spaesamento hanno trovato linfa e legittimazione. E con una politica che ha immaginato di governare questa città guardando al quadrilatero intorno a Montecitorio, senza accorgersi di quel che avveniva altrove, cieca e sorda alle trasformazioni, chiusa nella dialettica considerata ineludibile fra poteri forti e politiche più o meno subalterne.
Così questo itinerario urbano si è trasformato in un viaggio alla scoperta di quel che le cronache non raccontano se non nel loro esplodere in emergenze. Ma i palazzi occupati lo erano anche uno o due anni fa, pur senza fare notizia. Così tutto il resto, dall’acqua ai rifiuti. E di possibili bandoli di altrettante matasse forse meno ingovernabili di quel che potrebbe apparire, che richiedono però capacità di riconoscimento e di ricostruzione di coesione sociale (ma in positivo, non contro qualcuno che sta ancora peggio).
Perché, a guardar bene, di buone pratiche Roma ne è piena. Disabituate a riflettere sul cambio dei paradigmi, certamente. Poco inclini ad un interrogarsi di fondo sul proprio agire, anche. Appannaggio di piccoli poteri, talvolta. Inclini all’antipolitica e anche per questo subalterni all’amministrazione di turno, spesso. Ma incontrandone alcune di queste realtà, capaci di stupirsi che qualcuno trovasse utile osservarle. A dimostrazione che la politica, come la società civile, non sono obbligatoriamente sane o ammalate, ma richiedono stimoli tanto sul piano del pensiero come della capacità progettuale. Ed in questo le potenzialità di un tessuto tanto ricco sono straordinarie.
Osservazione, ascolto e dialogo
Lascio alla cronaca dei nostri itinerari che un po’ a fatica ma con meticolosità ricostruiremo sul sito del viaggio (www.zerosifr.eu) il compito di tradurre queste impressioni in situazioni reali. Ma una cosa si può dire sin d’ora. Che la strada dell’osservazione, dell’ascolto e del dialogo – insieme «al piacere del pensare pulito» – è quella maestra per ricostruire un pensiero che non rinunci all’idea di una società diversa e migliore. Che la politica poco curiosa diventa facilmente arida. E che questo cammino – un po’ aspromontano come dice Tonino Perna – si rivela oltre che tenace anche interessante e, niente affatto secondario, divertente.