C’è un treno che passa di qui. In preparazione dell’itinerario siciliano…
Di mattino, nel cuore di Palermo
Qualche ora di sonno e di buon mattino sono nel cuore di Palermo. Con Giando, guida d’eccezione che mi aiuta nel rintracciare le antiche mura della città, visitiamo il mercato del Capo con le sue bancarelle di pesce, ortaggi e frutta (le ciliegie e le albicocche qui già sono mature) e che di lì a poco saranno affollate da un fiume di persone.
Mi racconta delle parlate che si distinguono attorno all’immensa cattedrale dove le influenze architettoniche parlano a loro volta di antichi e nuovi attraversamenti. E poi Palazzo dei Normanni, la sede del parlamento regionale siciliano (che, mi viene fatto notare, esiste da prima di quello di Roma) con lo splendido giardino di palme che lo annuncia… Qui l’autonomia è stata davvero una grande occasione perduta.
A Ballarò… un preliminare per evitare ingorghi
Il luogo dove si svolge il nostro incontro è un centro di co-working nel quartiere di Ballarò, con annesso un piccolo ristorante gestito da persone che vengono da ogni parte del mediterraneo. Sono qui per parlare del “Viaggio nella solitudine della politica” e già il fatto che le idee navighino, possano trovare ascolto e suscitare confronto collettivo mi sembra un grande regalo.
Alla mia lettera Francesco ha reagito positivamente quasi fosse una cosa naturale, in virtù della nostra amicizia e di un comune approccio sui temi della cooperazione internazionale a partire dalla pubblicazione di “Darsi il tempo” e dal salto di paradigma che in quel libro abbiamo proposto. Ma mentre predisponeva lo zaino, il tempo di condividere questa proposta di viaggio con altri possibili “solitari della politica” e la percezione che la strada sarebbe stata dissestata (e che le “enclave felici” non potevano bastare) è venuta fuori.
Per quanto infatti lo sguardo sulle cose del mondo sia fortemente politico, il viaggio che qui ci si propone di fare è un’altra cosa. Più complesso, scivoloso e disseminato di ostacoli. Si può ben dire che tutto è politica, dalle nostre scelte quotidiane al rapporto con le istituzioni. Ma quando ci si inoltra nella solitudine della politica inevitabilmente ci si trova a dove fare i conti con l’inadeguatezza delle rappresentazioni esistenti. E con una dimensione pubblica che, ci piaccia o no, è ineludibile: il nostro rapporto con il potere.
Malgrado il nostro intento riguardi la sfera delle idee, le chiavi di lettura, le categorie interpretative, i paradigmi sui quali costruire una diversa narrazione, le domande si affollano. Possiamo dire che il terreno della politica è per certi versi impraticabile, tanto che – come sottolinea Annibale – il significato stesso di questa parola varia a seconda dell’età anagrafica di chi la pronuncia: per quelli della nostra generazione è ancora riconducibile alla ricerca del bene comune, per chi ha vent’anni la politica è semplicemente un sottosistema, un problema e non la strada per uscirne.
Quello generazionale – ci ricorda Marta – diventa un discrimine alla partecipazione. Produce impraticabilità, quando non disgusto. Un’impraticabilità che – per chi ha qualche anno in più – ha a che fare anche con le molte esperienze che si sono stratificate (e infrante) nei meccanismi che pervadono la politica e che appaiono ancor più perverse se rapportate ai microcosmi. Se poi i nomi (compreso il mio, sia chiaro) che compaiono non sono estranei a queste storie, un margine di scetticismo non può non farsi sentire. Hai un bel dire di volerti tenere lontano dal tradurre questo lavoro di ricerca in una qualche forma di soggettività politica…
È tale la tossicità dell’ambiente da far apparire quantomeno stravagante un progetto che non ricerchi risonanza… Così le parole smarriscono il loro significato ed anche il disporsi all’ascolto rischia di diventare un gesto retorico.
Per questo Francesco mi ha chiesto di fare un salto sin qui, come un preliminare di viaggio per evitare ingorghi o semplicemente di perdersi al primo stormir di foglie lungo un cammino necessariamente incerto. E dall’incalzare delle osservazioni e delle domande mi rendo conto di quanto fosse necessario sgombrare il campo, non resettare ma cercare una condivisione di senso.
L’esigenza di non ripercorre strade battute affiora in molti interventi. Qualcuno i graffi li porta addosso, laddove invece i più giovani sembrano prendere più alla lettera il messaggio che intendiamo rivolgere ai nostri interlocutori. E dove semmai risulta difficile comprendere come la politica possa essere altro rispetto a ciò che è diventata. Ma già qui siamo sul terreno di un’intenzionalità che in questo viaggio vorremmo evitare.
Uso il condizionale perché mi è abbastanza chiaro che la lingua andrà a sbattervi, perché – come dice Giovanni A. – qualche obiettivo ce lo dovremo pur dare nel cercare di ridurre la condizione di solitudine, che si tratti di una rete di pensiero, di ambiti formativi o di altro ancora.
La siepe, il limes che percorre il nostro viaggio
Ecco che lo sguardo generazionale ritorna in continuazione, fra il bisogno di far tesoro dell’esperienza di chi ti ha preceduto – e di quel passare la mano che la mia generazione schiacciata fra potere e rancore non mette nemmeno in conto – e la sensazione di essere fuori tempo massimo (“la ventitreesima ora”, si dice) tipica del disincanto.
Una risposta interessante viene da Giando quando propone la metafora della siepe, un luogo che ti fa sentire al sicuro ma che insieme ti rende più difficile vedere e andare oltre. Un limes che a guardar bene rappresenta uno dei tratti di questo viaggio, nel suo cercare di essere fra le idee, fra le appartenenze, fra i confini, fra “il non più e il non ancora”. In quella terra di nessuno che vorremmo ci predisponesse alla curiosità e alla meraviglia. Non è forse questo il senso del sifr?
«C’è un treno che passa di qui – dice Giando – e la cosa mi incuriosisce…». Forse potrebbe essere questa la chiave del nostro incontro. Perché tutti i presenti sono davvero incuriositi e ben disposti al viaggio, anche chi venendo qui – come Giovanni D. – era piuttosto perplesso, trovandosi poi in un contesto «dove si toccano corde che mi sembrano importanti». E dove la “solitudine della politica” richiama la VII lettera di Platone, attratto e respinto dalla politica.
Qui non ci sono appelli da firmare, adesione da raccogliere, cantieri da aprire. «Un treno che passa…» può essere un’immagine che ci sta, pur nella consapevolezza che gli orari e l’ubicazione delle fermate (e la scelta stessa di mettersi in viaggio) non sono estranee a chi di questo viaggio vorrà esserne protagonista. Mi si chiede chi o che cosa andiamo cercando. La risposta abita nel senso del viaggio: pensieri e pratiche che s’interrogano sul presente e sull’insostenibilità delle strade sin qui percorse, che indichino la possibilità e la convenienza di cambiare, assumendosi la responsabilità di percorsi collettivi che cercano di andare oltre la pur importante testimonianza.
Recuperando ciò che di interessante il passato ci ha trasmesso. Quello più lontano che affonda le sue radici, specie qui in Sicilia, nei processi di attraversamento che hanno portato alla formazione dell’Europa, al ruolo del Mediterraneo nel forgiare identità e sincretismi, e che ora si presenta come sventura. E nell’elaborazione del Novecento che ancora incombe sul nostro presente, nelle sue tragedie, nel suo delirante rapporto con la natura come d’altra parte nel valore delle sue eresie politiche che non hanno smesso di indicarci strade percorribili, dall’Europa immaginata a Ventotene alla nonviolenza come cultura e prassi politica, dalla cultura del limite alla consapevolezza che il male s’annida in ciascuno di noi.
Perché il viaggio è anche corpo a corpo con i territori, quelli che le macchine di consenso quali sono diventati i partiti non sanno vedere e nemmeno che farsene se non nella logica del venir ridotti a serbatoi elettorali da presidiare in una logica di comando tutta verticale.
Come si può evocare lo spirito di Ventotene e mettere in soffitta il federalismo? Ma il tritacarne mediatico (e quello del consenso) invoca decisionismo, semplificazione, cultura maggioritaria. Non la curiosità del guardare dentro le cose, dell’abitare le contraddizioni e i conflitti. In fondo nella richiesta di semplificazione (come nel bisogno di sapere chi ha vinto e chi ha perso) c’è questa fretta, questo sentirsi in continua emergenza, questa esibizione di forza funzionale allo scambio (Nino ci racconta una storia di ordinaria contrattazione fra consenso e potere cui ha recentemente assistito) che descrive la crisi della politica e dei corpi intermedi.
In tutto questo, quale itinerario?
È un viaggio complesso quello che ci proponiamo. Avrei voluto che in questo incontro iniziassimo a delineare un possibile itinerario ma c’era la necessità di guardarci negli occhi. In realtà ne abbiamo parlato informalmente nel momento conviviale a base di cous cous.
Quello che la Sicilia potrebbe dare ad un pensiero e ad una cittadinanza insieme europei e mediterranei affonda le radici nella propria storia come nel tempo presente. Ecco, mi piacerebbe che proprio a partire da questa nostra conversazione preliminare, fosse il limes – la siepe per rimanere all’immagine di Giando – il leitmotiv dell’itinerario siciliano, rintracciandolo nei luoghi simbolici della storia, nelle esperienze di autogoverno come nelle buone pratiche che sanno guardare oltre l’emergenza.
Ma io mi fermo qui, perché disegnare l’itinerario nel suo svolgersi vorrei fosse compito vostro. (m.n.)