Nel gorgo, per non abbaiare
Racconto di viaggio lungo la valle del Po, fra ingombranti eredità e la ricerca di nuovi paradigmi
di Michele Nardelli
In ognuno degli itinerari fin qui realizzati del “Viaggio nella solitudine della politica” sentivo di essere sul pezzo, ma mai come in quest’ultimo percorso nel cuore della “Padania” la sensazione di “essere presenti al proprio tempo” è stata così viva.
Essere lì, a Pieve di Soligo, nella terra di Andrea Zanzotto e di Giuseppe Toniolo, il poeta che ha saputo raccontare con grande profondità lo spaesamento della sua terra e l’economista cattolico che seppe dar corpo e profilo culturale al movimento cooperativo veneto, nel giorno cruciale del referendum per l’autonomia, ad interrogarci sul valore dell’autogoverno in una prospettiva europea, ha dato oltremodo significato al nostro viaggio assumendo nel tempo di twitter e dei talk show – come qualcuno ha osservato nel corso dell’incontro riferendosi all’aridità dell’attuale contesto politico – un profilo quasi commovente.
Pulsare col tempo, coglierne i segni, non è affatto scontato. Vivere un presente tanto complesso, oltremodo in una regione come la “Padania” che – da Caorso alla Marca trevigiana – porta addosso le conseguenze visibili del fallimento di un modello di sviluppo industriale ed energetico che ha avuto l’effetto di snaturare quella che rappresentava una della più importanti aree rurali d’Europa, fra pulsioni contraddittorie e laceranti, ci è servito a riflettere su come il cambio dei nostri paradigmi sia un passaggio tanto cruciale quanto ineludibile.
Perturbare la pace
Lo abbiamo potuto osservare da vicino in ognuna delle tappe di questo itinerario. Nei pressi di Brescia, prima ancora di inoltrarci in uno dei temi chiave della metamorfosi sociale culturale (ma anche economica) rappresentata dai fenomeni migratori, nel visitare il Musil – il Museo dell’industria e del lavoro di Rodengo Saiano – in un contesto dove la necessità di fare i conti con il passato diviene sempre più cruciale se vogliamo avere un racconto da svolgere su un presente ridotto ad “emergenza” e su un futuro che richiede di mettere mano a contraddizioni di ordine strutturale per poterlo delineare in forma sostenibile.
“Aiutiamoli a casa loro”: un titolo provocatorio di fronte all’ipocrisia di chi prima depreda, poi semina guerra (continuando a depredare) e che infine vorrebbe imporre – come già avvenne nel 1999 in Kosovo con la Missione Arcobaleno – codici comportamentali per condannare all’oblio un’umanità alla ricerca di un qualche futuro. Ma che vuole essere una provocazione anche per una società civile che ha smesso da tempo di interrogarsi, che preferisce ritagliarsi uno spazio di testimonianza rituale piuttosto che accettare di venir scossa nella sua visione manichea, come se bene e male non riguardassero da vicino anche i nostri mondi e i nostri stessi stili di vita che ci ostiniamo a considerare “non negoziabili”.
Con Agostino Zanotti, presidente di ADL Zavidovici Onlus che del convegno è promotore, mi accomuna fin dai primi anni ’90 l’impegno e la sperimentazione di nuove vie di cooperazione internazionale nei Balcani. In questa cosa dell’“aiutiamoli a casa loro” non possiamo che scorgere la doppiezza di chi per un verso è parte del problema e per l’altro sfoggia una facile retorica degli aiuti senza nemmeno sapere che anche questi ultimi lo sono. Nel salone del Centro Saveriano come nella sala della Società operaia di Rezzato, affollata in ogni ordine di posto per la presentazione del volume “Dal libro dell’esodo” (Piemme), si poteva misurare l’improrogabile necessità di “perturbare la pace”, di dire le cose come stanno anche nella loro ruvidezza, per cercare di costruire nello smarrimento del “prima noi” un nuovo racconto.
Eredità novecentesche…
A Caorso, dove l’eredità del Novecento assume i caratteri macabri di un impianto nucleare che – per quanto in stato di abbandono – non si potrà mai chiudere (e dal quale ci hanno gentilmente allontanati impedendoci anche la più innocua ripresa, quando basta andare su un qualsiasi motore di ricerca per poterlo osservare), come del resto è avvenuto per Chernobyl o Fukushima, ancora in funzione nonostante le immani tragedie sulle cui conseguenze mai sapremo tutta la verità. Torno qui trent’anni dopo quella memorabile catena umana che circondò la centrale e della quale ero fra gli organizzatori. Allora vincemmo, ma “Arturo” (così veniva chiamato – e ancora viene chiamato, ci dice la guardia che ci prende i documenti in prossimità dell’impianto – il reattore di Caorso) è ancora lì. Oppure a Cremona, dove la pesante eredità è quella della Tamoil, l’imponente raffineria vasta quanto la città stessa, che malgrado la chiusura continua nell’avvelenamento da idrocarburi e benzene delle falde acquifere e del fiume Po che le scorre accanto. Alessia Manfredini – che incontriamo – ne ha fatto un tratto distintivo del suo impegno assessorile in Comune, ma il danno appare irreversibile e la multinazionale Tamoil se la caverà con qualche briciola (in primo grado i dirigenti Tamoil sono stati condannati a pagare al Comune di Cremona la cifra praticamente simbolica di un milione di euro) di risarcimento.
Con Emilio Molinari, amico e protagonista di mille battaglie ambientali fra le quali il referendum che nel novembre1987 pose fine all’avventura nucleare italiana con una schiacciante maggioranza del 71,86%, riflettiamo su ciò che rimane sia di quel sito nucleare (e del modello energetico che rappresentava), sia dell’antica identità rurale di questa terra almeno qui irrimediabilmente compromessa. Può sembrare paradossale, dice Emilio, ma a distanza di trent’anni si avverte forse ancora di più quel clima di militarizzazione che il nucleare portava con sé. Ed in effetti avvicinarsi alla zona no limits della centrale ricorda le immagini dei reportage su Priyat e Chernobyl. A ben vedere piuttosto simili al degrado che si avverte nelle tante aree industriali dismesse. Il problema è che da quel paradigma non è facile uscire.
Tornare alla Terra
Così non è per la pianura tradizionalmente rurale (che poi significa anche industria agroalimentare e filiere connesse) che incontriamo spostandoci verso est in direzione Calvatone, dove andiamo a visitare la Comunità Iris, forse la prima e più grande esperienza italiana di agricoltura biologica partecipata. Loro il cambio di paradigma l’hanno cercato ed ha funzionato. In genere quando pensiamo al biologico viene da fare un’associazione con la testimonianza di nicchia, ma qui questo schema mentale non funziona. Perché stiamo parlando di un’attività che l’anno prossimo festeggia i suoi primi quarant’anni, perché vi lavorano stabilmente più di sessanta persone senza contare l’indotto, perché l’investimento che ha portato alla realizzazione del nuovo pastificio è stato di circa 7 milioni di euro di cui si sono fatti carico cinquecento soci senza un euro di intervento pubblico, perché infine la rete di vendita dei prodotti è locale, nazionale (in particolare attraverso i Gruppi di acquisto solidale – GAS) ed europea.
Insomma, qui il bello non è poi tanto piccolo e la qualità dei prodotti certificata e, possiamo dire, testimoniata. Fabio, Franco e Mirco che incontriamo sono orgogliosi di quello che si è costruito ma anche un po’ preoccupati perché col crescere delle produzioni aumenta anche il timore di fare le cose per bene, sana prudenza. La terra da poco arata intorno a noi è davvero spettacolare come lo sono i maialini allo stato brado che zampettano in libertà. Riflettiamo insieme su quanto sarebbe importante una legislazione che favorisse nella ristorazione pubblica collettiva (come avevamo previsto nella LP 13/2009, mai realmente attuata) l’uso del biologico e dei prodotti a basso impatto ambientale quando invece negli appalti ancora la spunta il massimo ribasso.
La necessità di un racconto creativo
Ci spostiamo a sud est, in direzione di Formigine. I colori della pianura sono affascinanti ma le strade interne sono dissestate e qualche ponte chiuso (siamo nell’area del terremoto del 2012), il che ci induce a prendere l’autostrada in direzione Modena. Siamo un po’ in ritardo sulla nostra tabella di marcia e quindi la velocità prende il sopravvento sulla lentezza. E’ proprio sul rapporto fra velocità e lentezza che intendiamo soffermarci nella serata-confronto con il sindaco di Maranello, Massimiliano Morini, che si svolge ai magazzini San Pietro nel cuore di Formigine, sapientemente trasformati dall’estro di Luigi Ottani e di Roberta Biagiarelli in uno “spazio asimmetrico per idee sopra le righe”, come l’hanno definito.
Quando con Luigi e Roberta ho parlato di questo itinerario “padano” e della possibilità di passare di qui, nella terra dei motori, chiesi loro quali fossero le ragioni per le quali la Ferrari si è realizzata in questi borghi e non altrove. Nella risposta di Luigi c’era il racconto di un luogo, dove ogni contadino sapeva mettere mano al proprio trattore. Un sapere antico, che nel tempo ha coniugato la tradizionale lentezza delle stagioni con l’estro geniale dei meccanici come il padre di Luigi. In realtà, nella piacevole conversazione con il sindaco di Maranello non parliamo tanto della “rossa” quanto piuttosto di questo tempo e del “dove stiamo andando?”, nel vuoto di futuro che segna anche comunità ricche come questa. Del fatto che quando gli abitanti perdono la memoria di sé, come scrive Salvatore Settis[1], le città muoiono. Dei segni che non sappiamo leggere e delle esperienze dalle quali non sappiamo imparare. Dell’insostenibilità dei nostri stili di vita e di un modello di sviluppo che invece di crescere dovrebbe saper rallentare e riqualificare. Della solitudine della buona politica e di quella di Francesco, papa inascoltato dalla stessa sua gente, in guerra spesso senza saperlo contro il prossimo.
Fra le persone che seguono questo inusuale confronto ci sono alcuni degli insegnanti di Modena che ho recentemente accompagnato in un viaggio di studio nei Balcani, evidentemente coinvolti dal mio racconto sul presente da venire sin qui per dare seguito anche a quella conversazione… fili che si annodano per cercare strade percorribili di cittadinanza responsabile. Ed è proprio lì, in un racconto che la sinistra non sa più proporre, che forse possiamo rintracciare il bandolo della matassa. All’incontro partecipa anche la sindaca di Formigine, Maria Costi, che ci ringrazia per questa boccata d’aria fresca nel vuoto di visione del presente.
Nel dirigerci verso la regione che più di ogni altra ha subito gli effetti dello spaesamento, attraversiamo il Polesine, quella “bassa” che nel novembre del 1951 conobbe una delle più grandi tragedie ambientali del secondo dopoguerra, la grande alluvione (video). Ne parlo con l’amico Razi, regista di origine afghana che ci accompagna in questo viaggio raccogliendo le immagini dei nostri incontri e delle terre che attraversiamo. Razi non riesce nemmeno ad immaginare come questa terra fertile e tranquilla abbia potuto trasformarsi in un mare di fango di 1.400 km quadrati, una tragedia che portò tante famiglie ad andarsene da questi luoghi, aggiungendo dolore a dolore. Sta seguendo questi nostri itinerari cogliendone il valore creativo, perché – mi dice – “la politica è creazione”. Non produzione di cose, ma creazione di relazioni, di scenari e di contesti che possano aiutarci ad affrontare il presente. Il suo sguardo di artista e di uomo che viene da altri orizzonti è imprevedibile e stimolante.
Soldi in cambio dell’anima
Dopo due giorni di cielo grigio riappare il sole sui campi arati di fresco. I capannoni che ora s’incontrano sono quelli di una filiera agroalimentare messa a dura prova dalle monocolture e dalle multinazionali, ma dove è ancora possibile ricominciare dalla qualità e dalle unicità. Ad Iris nel 1978 erano partiti dalle siepi, per fermare le derive e segnare una diversità, ma oggi la sfida è quella di contaminare alle buone pratiche, dimostrando che qualità e redditività si possono incontrare. Ripartire dalle cose vere, ci diceva Emilio nell’incontro di Brescia, tornare alla “madre terra”, appunto.
E’ questo uno dei grandi temi che il confronto sui modelli di sviluppo e sulle città dovrebbe porre, nel cercare le strade per ridurre la nostra impronta ecologica. Nella sua casa di Vigodarzere ne parliamo con Gianni Tamino, biologo ed ambientalista, già parlamentare nazionale ed europeo. Il suo racconto sul boom economico del secondo dopoguerra ci aiuta a comprendere i processi di snaturamento culturale e sociale dei territori, dove il demone del denaro non ha portato al miglioramento della qualità del vivere. «Soldi, e tanti, in cambio dell’anima» amava dire Andrea Zanzotto. Aumento del PIL e della solitudine. Un paradigma dove l’uomo diviene ingranaggio di una macchina che non ha bisogno di coesione sociale ma di individui isolati, in lotta con il prossimo.
Nel frattempo ci ha raggiunti Federico Zappini. Mentre conversiamo con Gianni, storie e saperi ma anche generazioni s’intrecciano come non sempre accade, gelosi come siamo dei nostri ruoli e di quel poco o tanto di potere che ci portiamo appresso. Le nostre analisi si toccano, così l’impellente necessità di un cambio dei paradigmi con cui ridisegnare il futuro. Non è poco, anzi. Ma quando tocchiamo l’argomento del referendum del giorno dopo, misuriamo diversità e distanze. Quasi che le istanze del federalismo fossero impraticabili e non invece una sfida da accettare per sconfiggere i centralismi, quelli nazionali come quelli regionali. Penso a quanto nella mia terra c’è voluto affinché l’autonomia diventasse un terreno fertile sul quale costruire partecipazione, responsabilità e cambiamento. E a quanto possa essere veloce il suo declino in assenza di una narrazione capace di sfuggire al “prima noi”. Crinali taglienti, certo, che ciò non di meno richiedono di essere percorsi.
Crinali da abitare
Un crinale che proviamo ad indagare nell’incontro a Padova con la Coalizione Civica che ha contribuito in maniera determinante all’affermazione della coalizione più vasta che sosteneva la candidatura a sindaco di Sergio Giordani. Contro ogni aspettativa, contro il segretario della Liga Veneta e sindaco uscente Massimo Bitonci, contro la frammentazione politica della sinistra e tanto altro ancora, sono riusciti in una cosa affatto secondaria, dare anima e cuore alle tante persone deluse e allontanate da una politica incapace di visione e ridotta a strumento di potere. Incontriamo i protagonisti di Coalizione civica a conclusione di un gruppo di lavoro dedicato alle forme del loro stare insieme, argomento tutt’altro che banale. Tanto è vero che nell’ascoltarli si ha la sensazione che proprio il metodo più di ogni altro contenuto sia stato l’elemento capace di fare la differenza rispetto ad esperienze precedenti.
So che il metodo è sostanza e però inizio ad averne le tasche piene di un concetto – come sottotitola il libro di Michel Serres[2] – «dal quale non nasce niente». Forse per questo faccio un po’ di fatica a ritrovarmi nel loro racconto. Ma siamo qui in primo luogo per ascoltare e cercare di capire quel che di interessante si muove, specie in una città complessa come Padova che in questi decenni è continuamente passata di mano fra gli schieramenti e in sofferenza per come è stata ridotta, specchio di un moltiplicarsi di interessi piuttosto che di un disegno che se c’era rispondeva ai poteri forti (ed è sufficiente guardarsi intorno per comprenderlo). Ma ora? Un disegno alternativo c’è? E quali cambi di paradigma impone? Forse è ancora troppo presto per dare una risposta.
Mentre cerchiamo una strada verso l’ultima meta del nostro itinerario, Pieve di Soligo, è già notte. Sarà la stanchezza, ma fra noi aleggia un po’ di perplessità per quest’ultima conversazione. Troppo alte le nostre aspettative? Troppo poco tempo per approfondire? Mi colpisce che nessuno ci abbia chiesto qualcosa di questo nostro viaggio, come se la politica dovesse rispondere ad altro rispetto alle nostre domande. Veniamo da una terra dove il centrosinistra autonomista vince le elezioni da quasi venticinque anni, molti dei quali – a guardare il nord di questo paese – in perfetta solitudine. Forse che se oggi ci poniamo domande alte ciò non abbia a che fare con la considerazione che si può vincere e perdere, insieme?
Artificialità e salute della mente
Riprendiamo il flusso dell’autostrada verso Preganziol e poi ci infiliamo nell’ordinario disordine di un modello di sviluppo che fra strade e capannoni ha trasformato questa terra in un’immensa infrastruttura logistica capace di divorare il territorio e con esso l’immaginario collettivo, quasi fosse normale vivere in un mondo tanto artificiale e inguardabile.
«Ora – diceva Andrea Zanzotto – tutta questa bruttezza che sembra quasi calata dall’esterno sopra un paesaggio particolarmente delicato, “sottile” sia nella sua parte più selvatica come le Dolomiti, sia in quella più pettinata dall’agricoltura, non può non creare devastazioni nell’ambito sociologico e psicologico. Vivere in mezzo alla bruttezza non può non intaccare un certo tipo di sensibilità, ricca e vibrante, che ha caratterizzato la tradizione veneta, alimentando impensabili fenomeni regressivi al limite del disagio mentale»[3].
Approccio che salendo verso l’area pedemontana si estende per l’appunto anche all’agricoltura dove prolifera a macchia d’olio la monocoltura del prosecco, nuovo mantra per “far schei” tanto da far immaginare a qualcuno una legge regionale per autorizzare il trattamento chimico con gli elicotteri. La quantità prima della qualità: un modello di sviluppo che ben conosciamo e destinato al fallimento.
Quando raggiungiamo Pieve di Soligo è tarda sera e proprio nell’infilarci nel vecchio albergo che casualmente abbiamo prenotato nella piazza principale del borgo trevigiano ci rendiamo conto di quanto avesse ragione Zanzotto e di come lo spaesamento possa essere persino dentro i luoghi e le cose. Alfred Hitchcock avrebbe potuto ambientarci “Psyco”. La pioggia che ci accoglie al mattino non aiuta a vedere le cose diversamente.
Non abbaiare
È domenica 22 ottobre, non un giorno qualsiasi. I veneti sono chiamati alle urne per il referendum sull’autonomia, formalmente inutile ma in realtà di straordinaria potenza politica. È in questo passaggio di tempo e di spazio che abbiamo immaginato di concludere il nostro itinerario padano con una conversazione sui temi dell’autonomia, chiamando a raccolta alcune delle persone che in questi anni e in queste terre ha cercato di coniugare federalismo e responsabilità.
Storie e percorsi politici diversi quelli che incontriamo ma anche un profondo (e per certi versi inaspettato) sentire comune. Ne viene una mattinata di confronto ricco e stimolante di cui daremo cronaca in forma compiuta. Ma essere qui a Pieve di Soligo, in questa giornata particolare, a raccogliere le idee per abitare il presente e non semplicemente – per usare la bella immagine di Diego Cason – per stare al balcone ad osservare gli eventi, significa effettivamente «essere presenti al proprio tempo».
Nella consapevolezza di essere minoranza, laddove soffia forte il vento del “prima noi”, ma anche di non trovarci a rimorchio degli avvenimenti. Cercando nella politica come nella poesia il soccorso per «non abbaiare»[4]. Grazie Andrea, c’è una rosa bianca accanto alla tua dimora.
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1. Salvatore Settis, Se Venezia muore. Einaudi, 2014
2. Michel Serres, Il mancino zoppo. Bollati Boringhieri, 2016
3. Andrea Zanzotto, In questo progresso scorsoio. Conversazione con Marzio Breda. Garzanti, 2009
4. «Se qualcuno mi chiedesse d’esporre la mia poetica, d’impulso risponderei: non abbaiare». Andrea Zanzotto, ibidem